ANNA MAGNANI – NANNARELLA CARITA’ (trentanovesimo capitolo del “Glossario Felliniano”). Verso il Centenario della nascita di Federico Fellini

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Federico e Nannarella erano buoni amici, da quando il giovane riminese approdato a Roma scriveva sceneggiature per film popolari di enorme successo, L’ultima Carrozzella, Campo de’ Fiori (1943), commedie sentimentali che l’attrice interpretava in coppia con Aldo Fabrizi.

Fellini si era fatto apprezzare per la battuta rapida e surreale, collaborava al quindicinale umoristico Marc’Aurelio, era un autore radiofonico dell’EIAR, e inventava anche gag per il celebre comico romano; il quale lo volle accanto a sé quando Rossellini gli propose di interpretare in Roma città aperta la figura di don Morosini, un prete diventato martire della resistenza.

Durante la lavorazione di quel capolavoro, si accese anche l’amicizia tra Fellini e Rossellini, che a quel tempo intratteneva una relazione stabile con Anna Magnani. I tre marciavano d’amore e d’accordo, tanto che Rossellini, oltre ad utilizzare Federico come sceneggiatore e assistente in Paisà, l’aveva scritturato in seguito per recitare insieme alla Magnani nel film L’Amore (1948). L’episodio si intitolava Il miracolo e Federico, con la rigogliosa capigliatura tinta di biondo, interpretava la parte di un pastore di cui si invaghisce una giovane donna un po’ stramba e ritardata scambiandolo per San Giuseppe. In un accesso mistico, e stordita dal vino, la ragazza si lascia possedere rimanendo incinta con sviluppi insoliti.

Fellini raccontava, da attore consumato, le settimane di riprese a Majori, sopra Amalfi, in un languore estenuato da vacanza che si era protratto fino a quando, per un imprevedibile incidente di percorso, si infranse l’idillio tra la Magnani e il padre del Neorealismo (come viene narrato nella voce dedicata a Rossellini).

Federico aveva una viva ammirazione per Anna, ne rievocava i siparietti comici in coppia con Totò nei teatri di avanspettacolo dove il pubblico, specialmente femminile, rideva fino a farsi la pipì addosso. L’ambiente bellicoso, sovreccitato, da arena gladiatoria, con le pozze di orina tra i sedili, era quello che Fellini tratteggerà mirabilmente nel film Roma, nella sequenza del Teatrino della Barafonda.

«Anna aveva paura di Totò, – raccontava divertito il regista – lo temeva, perché sapeva che con lui non le era possibile tenere la scena. In parte aveva ragione: se sul palcoscenico entrano un attore e una foca, tutti guardano la foca. Totò aveva quel medesimo magnetismo irresistibile, elementale, che hanno gli animali, le creature fantastiche, i sogni! Era stato lui a rivelarmi che la Magnani, quando lavoravano insieme, prima dello spettacolo andava a trovarlo in camerino e lo scongiurava: “Principe, questa sera fate ridere un po’ di meno…”»

Da Nannarella nasce anche la prima idea de Le notti di Cabiria, come narra lo stesso autore:

«Rossellini cercava uno spunto, un pretesto, un’idea per girare un breve film. Chiacchierando con Pinelli, imbastimmo alla meglio una storiella che non era male; raccontava di una mignottella aggressiva e sentimentale, che una sera passeggiando per via Veneto vede uscire impetuosamente da un night club una donna stupenda in pelliccia di visone inseguita da un uomo in smoking, alto, aitante, un divo allora popolarissimo. L’uomo stava litigando violentemente con la donna – la sua amante – e alla fine la schiaffeggiava. Poi, mentre ancora furioso stava montando nella sua immensa Cadillac, sorprendeva lo sguardo sbalordito, trasognato della puttanella che aveva assistito all’alterco. Per un estro improvviso di provocatoria esibizione, il divo la faceva salire in macchina e se la portava a casa sua, una lussuosa, fantastica villa, dove ordinava un pranzo a base di aragosta e champagne».

Per chi non conoscesse il seguito, accade che quando i due stanno per mettersi a tavola, ecco rispuntare l’amante decisa a proseguire il litigio. L’uomo si precipita a chiudere a chiave nel bagno la puttanella, e lei da lì, affascinata e curiosa, continua golosamente ad assistere con l’occhio incollato al buco della serratura all’appassionata riappacificazione della coppia.

Il mattino dopo, all’alba, il divo la liquida mettendole in mano alcuni biglietti da mille, e lei se ne va stordita di sonno e di sogni, aggiustandosi il suo bolerino di piume di pollo, lungo il viale deserto della favolosa villa.

Prosegue Fellini:

«Raccontai alla Magnani meglio che potevo questo episodio, insistendo nella descrizione dei dettagli che più sicuramente avrebbero fatto ingolosire un’attrice: l’acconciatura dei capelli, il modo di vestire, come avrebbe dovuto camminare, e sottolineando tutti i momenti più patetici o più comici che la storia poteva sviluppare. Mi accorgevo però dall’aria via via sempre più distaccata che Anna Magnani prendeva, dall’eccessivo interesse con cui indugiava a guardarsi le unghie, da un piccolo sbadiglio a stento soffocato, e anche da certi sospiri gravidi di private amarezze, che la storia e il personaggio non godevano della sua simpatia, e alla fine tagliò corto:

“A Federì, ma ti pare che una come me si fa chiudere nel cesso da uno stronzo d’attore? “.

Guardai Rossellini in cerca di aiuto, Rossellini si accese subito una sigaretta e mi chiese se avevo qualche altra idea. Non ne avevamo, almeno per il momento».

 

Tra Anna e Federico non ci furono altre occasioni di lavoro. Ma nel 1971, in occasione del film Roma, il regista aveva voluto concludere la sua personale dichiarazione d’amore alla Città Eterna con un omaggio a Anna Magnani, considerata l’essenza stessa dello spirito romanesco, la musa e l’incarnazione femminile della Capitale.

Il regista la interpella di persona sul portone di casa mentre l’attrice sta infilando la chiave nella toppa (in Piazza S. Maria in Trastevere e non a Palazzo Altieri, dove effettivamente abitava), e la invita con la sua voce più suadente a rilasciare un commento davanti alla macchina da presa. La scena ha il sapore di un appostamento ma, c’è bisogno di dirlo?, il dialogo era stato scritto e concordato, era la perfetta recitazione di un incontro improvvisato:

FELLINI: Anna!… Anna!… Vuoi dire anche tu qualcosa su Roma? Tu che sei quasi un simbolo…

MAGNANI:  Che so’ io?

FELLINI: …Lupa e vestale…

MAGNANI: De che?…

FELLINI:  In che cosa assomigli a questa città?

MAGNANI:  A Federì, va a dormì… va’!

FELLINI:  Ascolta…

MAGNANI: No, nun me fido!… Ciao!… Buonanotte!

 

Ventuno anni dopo, ricoverato nel Reparto di Neurologia del Policlinico Umberto I di Roma, Fellini mentre veniva spinto sulla carrozzella lungo il corridoio per essere ricondotto in camera da uno dei tanti controlli clinici, scorge in un soprassalto di fronte a sé Anna Magnani, morta esattamente venti anni prima. Tornato nella stanza ancora turbato, mi riferisce che Anna gli si era materializzata davanti all’improvviso e l’aveva apostrofato come se lo stesse aspettando:

«Ah Federì, e ce n’hai messo a arrivà!».

Poi nell’atto di andarsene, prima di svanire, s’era rivoltata e l’aveva salutato con la sua risata roca:

«Arrivederci, Federì!»

«Non mi pare un buon segno!» Commentava il regista disteso nel letto, alzando il sopracciglio con espressione sperduta e allarmata.

Al Policlinico di Roma Federico era più solo di quanto fosse mai stato negli ospedali di Rimini o Ferrara. «Come ne uscirò…?» Continuava a domandarsi. E non bastavano le mie rassicurazioni ad allentare la morsa d’angoscia, né i saluti festosi che gli portavo dagli amici.

Abbiamo continuato a ragionare su quel sinistro incontro fino all’ora di cena. C’era un’ombra che lo aveva raggiunto, un fosco avvertimento che non riuscivamo a dissipare.

Quale poteva essere la ragione per cui proprio Anna aveva assunto ai suoi occhi l’aspetto dello psicopompo, la figura che nella mitologia greca svolge la funzione di accompagnare le anime dei morti nell’oltretomba?

Probabilmente perché la Magnani apparteneva a quelle creature speciali in cui il deposito millenario degli incroci di sangue e di razze riesce a stratificare una sapienza orfica, oracolare, una identità sfuggente, da maga. Federico diceva di lei:

«Mi era simpatica, la Magnani, l’ammiravo, ma mi dava un po’ di soggezione con quell’aria fosca da regina degli zingari, le lunghe occhiate silenziose, scrutatrici, gli scoppi di risa rauche nei momenti più inattesi. Sembrava sempre risentita, annoiata, altera».

 

Nannarella era romana puro sangue, nata nei pressi di Porta Pia, come risulta negli estratti anagrafici. Eppure nel corso della sua esistenza lei stessa si era scapricciata a inventare per i giornalisti impiccioni, un groviglio di mezze verità di cui era arduo riafferrare il capo. Diceva di essere venuta al mondo ad Alessandria d’Egitto, poi smentiva infastidita, e indicava come luogo di nascita un portoncino sulla salita di Monte Cenci nel ghetto ebraico; oppure un palazzone di Piazza Campitelli, vicino al Campidoglio.

Paolo Stoppa, che era stato suo compagno di corso alla scuola di recitazione, preferiva attribuirle un’origine più romanzesca. Sosteneva che lei fosse una pied noir, cioè una maghrebina, nata nel nord Africa, dalla madre che era entrata a far parte dell’harem di qualche Pascià.

In effetti i tratti somatici potevano ricondurre a oscure origini saracene. Del padre di Anna non si è mai saputo nulla. Sua madre, Marina, era una ragazza nubile e l’aveva partorita nel 1908 come recita il certificato di nascita: E’ nato il 7 marzo il bambino di sesso femminile Magnani Anna.

Che Anna fosse quirite non ci sono dubbi. Ma da dove provenivano i genitori?

Sembrerebbe ormai appurato che la mamma della Magnani, fosse originaria di Fano; dalla cittadina adriatica si era trasferita a Roma con tutta la famiglia, vale a dire cinque sorelle (sartine o modiste come lei) e un fratello. Marina era molto attraente e rimase presto incinta.

La futura attrice la descrive con i capelli neri e gli occhi celesti, d’acciaio. Da bambinetta ne teneva sempre con sé una piccola fotografia, perché a quattro anni la madre l’aveva abbandonata nelle braccia della nonna, volando incontro al proprio destino. Aveva attraversato il mare, questo è vero, verso Alessandria d’Egitto, al seguito di un austriaco con cui aveva generato un’altra figlia e formato una nuova famiglia.

Nannarella aveva rivisto sua madre quando era ormai adolescente, approdando in Egitto:

“Mamma mi piacque subito. Adoravo il suo modo di parlare. Ha un senso fantastico dell’umorismo mia madre. Se vuole è capace di farti ridere fino alle lacrime per ore intere.”

Nonostante il benessere di cui Marina la circonda e i regali di cui la ricolma, la madre non riesce a far breccia nell’affetto della figlia. E’ la nonna, che l’ha cresciuta bambina, ad occupare il primo posto nel cuore di Anna, la quale non vede l’ora di tornare presso di lei, a Roma. La ferita dell’abbandono non si rimarginerà mai più.

 

Quando già adulta e famosa, un garagista di La Spezia presso il quale ha ricoverato la macchina, insiste per vedere la sua patente, l’attrice reagisce male, ringhiosa: “Allora, vuoi sape’ pe’ forza che so’ fija de ‘na mignotta. Tiè, pìatela!”

Questo episodio è ricordato da Gigetto Pietravalle, storico agente di attori, lo stesso che testimonia di quando, durante un viaggio notturno in auto verso Milano, Anna gli chiese di fare una deviazione e passare per Fano: “Qui abita mia madre – gli spiegò. –  La vado a trovare, torna a prendermi fra un paio d’ore.”

A Fano in molti conoscono confusamente questa vicenda ormai sfilacciata dal tempo. Anche il regista Leandro Castellani ricorda che il suo notaio aveva incontrato personalmente Marina Magnani, la quale si lamentava qualche volta di una figlia difficile e indomabile. Insomma le scarse notizie sembrano coincidere. Gli ascendenti dell’artista appartengono alle Marche e non alla Romagna come lei pretendeva, probabilmente in buona fede, in quanto per un romano di allora la lingua da Ravenna in giù può suonare con la medesima inflessione. Parlando di sua madre nel giro degli amici sosteneva che fosse romagnola. E lo ribadisce, con l’usuale irruenza del suo temperamento, anche in un’intervistata rilasciata a Oriana Fallaci per l’Europeo (Mamma Tragica, 14 aprile 1963:

“Ma quante volte ve lo debbo spiegà che non sono stata raccattata per strada, che ho fatto la seconda liceo, che ho studiato pianoforte otto anni, che ho frequentato l’Accademia di Santa Cecilia?… Come quando sostengono che sono nata da padre egiziano in Egitto. Ma io sono nata a Roma, da madre romagnola e da padre calabrese, se non ci crede le do il certificato di nascita, in Egitto mia madre ci andò dopo che m’ebbe avuta. Aveva diciotto anni, non era sposata e a quell’epoca era uno scandalo, così andò in Egitto e io restai con la nonna: qui a Roma. Perché non c’è nessuna vergogna, sia chiaro, a ripetere che io non ho il nome di mio padre, ho quello di mia madre, che mio padre non l’ho conosciuto, di lui so soltanto che è calabrese. E allora perché mi vogliono a tutti i costi egiziana?”

Sul padre ignoto aveva fatto persino eseguire un’indagine, scoprendone forse il cognome: Del Duce. Così aveva preferito lasciar perdere, commentando sarcastica: “Non m’andava d’esse chiamata la fija Der Duce.”

La versione più giusta alla fine ci sfugge fra le dita, come sabbia. Per chi è inclinato piuttosto a scrutare le inafferrabili verità celate tra gli interstizi dell’anima, risulta convincente, oltre che suggestivo, il labile indizio di una canzone a cui Nannarella era rimasta morbosamente affezionata per tutta la vita, e che cantava da piccola, avendo imparato a una a una le parole dalle labbra della nonna:

“Ti sei fatta ‘na veste scullata, /nu cappiello cu ‘e nastre e cu ‘e rrose… ”

La canzone s’intitolava Reginella.

La madre le mancava, ne aveva sofferto immensamente l’assenza, in aggiunta a quel marchio indelebile di essere la figlia della colpa:

“Io le scrivevo e lei mi mandava dei bei vestiti di seta, molto raffinati. Strano, vero? Appartenevo a una famiglia, diciamo pure, povera, e ricevevo vestiti da principessa. Eravamo dunque così diverse io e mia madre? Avevo l’impressione che lei non mi amasse come l’amavo io.”

stive ‘mmiez’a tre o quatto sciantose

e parlave francese…è accussí?

 

Federico aveva una spiccata preferenza per le persone irregolari, le meno garantite, che recavano su sé stesse il marchio di una umanità incontrastabilmente genuina, non mistificabile. Erano loro i suoi numi tutelari, forse anche i suoi angeli custodi. Nessuno stupore dunque che gli sia apparsa Nannarella sulla soglia del regno delle ombre:

……………………

T’aggio vuluto bene a te/

Tu mm’hê vuluto bene a me!


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