Il nostro addio a Luigi Lunari. Drammaturgo e critico di rango

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Era (quasi) nella insondabile logica delle cose che questa propaggine di luttuosa estate espletasse il suo nero carnet con la scomparsa di un ennesimo “protagonista”, “artefice”, “inventore” della drammaturgia italiana del secondo novecento. Ci lascia quindi anche Luigi Lunari, critico, traduttore, commediografo, operatore culturale di prima grandezza, nato a Milano (e ambrosianamente insubordinato sin nell’anima) il 3 gennaio del 1934.

Ricca di significati, tappe, incontri formativi la sua biografia: primogenito dei tre figli di visse l’infanzia e la giovinezza nel cuore dei Navigli: oggettivamente (e per quei tempi) “benvoluto” dalla buona sorte.      In che senso?  Per  evitargli l’indottrinamento della scuola fascista, fu iscritto dal padre alla Deutsche Schule, paradossalmente refrattaria all’insorgente ideologia nazista. Dal 1942 al 1946 visse il periodo dello sfollamento nel paese natale del padre (sulle lande del vicentino); nel 1946 tornò a Milano per frequentarvi medie e ginnasio all’Istituto Gonzaga dei Salesiani, e il liceo classico al liceo Carducci, dove ebbe -fra l’altro-   Bettino Craxi compagno di classe e di banco.  Laureatosi in Giurisprudenza (e svogliatamente) alla Statale di Milano, frequentò di slancio il Conservatorio Arrigo Boito di Parma, dove compì il “corso medio” nel 1960.

Nello steso anno  entrò a far parte del Piccolo Teatro di Milano, incaricato di un Ufficio Studi in cui raccolse una collezione di riviste teatrali di tutto il mondo.  Al Piccolo rimarrà a lungo, collaborando con Paolo Grassi e soprattutto, con funzioni di drammaturgo “residente”, con Giorgio Strehler, per il quale tradusse vari testi di Bertolt Brecht, William Shakespeare e Anton  Čechov.

Nella sua lunga attività diede contributo alla grande trasformazione che il teatro ha vissuto nella seconda metà del Novecento, sia sul piano organizzativo e strutturale sia per ciò che concerne la teoria dello spettacolo, del teatro di regia, della scrittura drammaturgica- a diretto contatto (e spesso ‘in fieri’) con  l’evoluzione creativa ed operativa di qualsiasi spettacolo “degno di dirsi tale”

Al 1961 risale “Tarantella con un piede solo”, rappresentata al Teatro Mercadante di Napoli con la regia dell’allora ignoto Andrea Camilleri, a inaugurazione del Teatro Stabile della città. La rappresentazione venne sospesa dalla polizia, alla fine del primo atto, per (il solito, tediosissimo) reato di “oltraggio al pudore”, sempre in  auge nelle stagioni di quaresima e  sacrestia, come nelle amare tribolazioni del grande Testori (vedi il caso di “Arialda”).

Chiusa la parentesi ‘peccatrice’, nel  1966, Lunari scrisse su commissione una farsa ispirata a “Die Hose” di Carl Sternheim, che fu il suo primo, tangibile successo: interpretata da Piero Mazzarella e Tino Scotti, con la regia di Carlo Colombo, la commedia rimase in cartellone per 103 sere al teatro Odeon   con il titolo di “Per un paio di mutandine” (poi ribattezzata “L’incidente”). Incandescente, scrupoloso, iperattivo, nel 1967 e 1968, Lunari “si iscrisse” d’ufficio” alla storia del grande cabaret milanese del dopoguerra (vedi alla ‘voce’Derby Club), firmando due spettacoli per lo strepitoso  quartetto dei Gufi, ovvero “Non so, non ho visto, se c’ero dormivo”  (incentrato sulle malefatte del primo ventennio della Prima Repubblica) e l’antimilitarista “Non spingete, scappiamo anche noi!” . Seguirà, nel 1973   (di nuovo al Piccolo di Strehler) la stesura de “I contrattempi del tenente Calley”, ispirata alla strage di Mylai durante la guerra del Vietnam. Cui fece seguito, nel 1980, “Il senatore Fox”, liberamente ispirato ad un classico del teatro elisabettiano, “Volpone” di Ben Jonson.

Di lì a poco Lunari  entrò in contrasto con la Direzione del Piccolo,  cui rimproverava il rifiuto di apporti registici esterni, allontanandosi spontaneamente dalle austere “stanze” di via Ravello, cui resta dedicata una  vasta saggistica di storica e di critica (testimoniata dagli innumerevoli programmi di sala redatti d’intesa con Il Grande Giorgio).

Il successo di pubblico e di critica fece ritorno a fine anni ottanta con “Tre sull’altalena”, apprezzato     al Festival di Avignone (regia di Pierre Santini) e in successiva tournée europea, con una sventagliata di traduzioni in oltre venti lingue e rappresentazioni estere. Dopo un periodo di proficuo silenzio dedicato allo studio, al giornalismo, alla critica militante (occasione in cui, da giovanissimo,  ebbi il piacere di conoscerlo e brevemente frequentarlo, approfittando dei formativi convegni della Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, promossi dai “maestri” De Monticelli e Poesio).

Lunari ritornò alla drammaturgia, suo vero ‘richiamo della foresta’, con “Il canto del cigno” del 2006. Qualificando la  nota saliente della sua vasta produzione e “affinando” la ricorrente, confidenziale presenza di Sorella Morte: vista non in senso tragico-nichilista,  ma come fraterna presenza che “vigila” su ciascuno  “verso la serena accettazione del fine vita”.

E così ci piace immaginare che sia avvenuto, giorni or sono, nella sua imprescindibile città nativa.


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