Un cartesiano in terra di Sicilia

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di Marcelle Padovani

UnknownMi è capitato spesso di scrivere di libri. Anche questa storia non fa eccezione: si comincia da un libro. Un piccolo volume che occupa un posto speciale in casa mia da quasi venticinque anni. All’inizio era solo uno tra i tanti sistemati negli scaffali, con la sua copertina verdognola e quel titolo stravagante, ma oggi, dopo centinaia di inchieste e documentari, quel piccolo volume mi sembra ancora il documento più prezioso nella divulgazione della lotta alla mafia. Ma questa non è solo una storia personale. Perché Cose di Cosa Nostra (BUR, 1991) è qualcosa che va al di là del caso editoriale. È un’opera – specialemente l’edizione collaterale del Corriere della Sera nel 1995 – entrata in milioni di altre case, le case degi italiani che, con tremende ferite all’anima, sono sopravvissuti a quegli anni di stragi mafiose. Noi giovani non possiamo ricordarli, ma riecheggiano in noi come racconti del terrore. Ma uno di questi mi ha segnato davvero nel profondo: ogni 23 maggio, una volta spente le candeline e finita la torta di compleanno, i telegiornali della sera mi ripropongono le immagini delle automobili incenerite e dell’asfalto divelto nello svincolo autostradale di Capaci.
Dopo ventotto anni dalla pubblicazione di Cose di Cosa Nostra (e ventisette dalla strage di Capaci), Marcelle Padovani non ha ancora smesso di cercare nuove parole per rendere onore a Giovanni Falcone, un uomo, un magistrato che, insieme a Paolo Borsellino, è per tutte le generazioni, in particolare la mia, il vero e proprio baluardo della libertà e del sacrificio in nome della giustizia.
La giornalista francese offre un ricordo intimo e appassionante di quell’uomo con cui ha lavorato per anni alla stesura del libro. I primi contatti avvengono nel 1983, a pochi mesi di distanza dall’assassinio di Rocco Chinnici. Il libro sarà dato alle stampe nel 1991. Quegli anni sono stati i più intensi nella vita di Falcone: il primo grado del Maxiprocesso, il trasferimento a Roma e il fallito attentato dell’Addaura. In tutto questo tempo, Marcelle Padovani ha rincorso il magistrato in lungo e in largo per l’Italia nel tentativo di ottenere delle interviste, e gran parte del capitolo è dedicata alla preziosa aneddotica riguardante la nascita del libro, un enorme successo editoriale prima in Francia e poi nel nostro paese.
Ma la Padovani ha intessuto uno strettissimo rapporto con Falcone ed è riuscita a carpire nel profondo la personalità del suo intervistato. In quei ventidue incontri che hanno dato vita al libro la giornalista ha conosciuto un uomo razionale, un illuminista, un cartesiano che, in una terra come la Sicilia, definita da Sciascia: «Una dimensione fantastica», è destinato a rimanere isolato. Ma la solitudine di Falcone non è confinata solo alla sua terra d’origine: «Nella sua lotta alla Mafia fu molto solitario», racconta la Padovani, e di questo il magistrato ne era ben consapevole, e accettava il peso dell’isolamento – in Sicilia e poi a Roma – in ragione di una lotta portata avanti con tenacia ed estremo pragmatismo: «Non si perdeva mai in aneddoti superflui, cercava riscontri, studiava i bilanci delle società sotto inchiesta, controllava e rivedeva tutte le dichiarazioni dei suoi indagati». Essere minuziosamente logici, agire con fermezza e serietà al punto di venire giudicati con inezia dai colleghi meno pronti all’azione; questa era l’unica soluzione per annichilire una struttura organizzata in modi perversamente logici e rigorosi: «Questi mafiosi a volte mi sembrano gli unici esseri razionali in un mondo di pazzi», diceva con fare provocatorio Falcone.
Questo è forse il fatto più sconcertante, per una persona che non ha vissuto quell’epoca: com’è possibile che gli uomini che hanno contribuito a rivoluzionare il sistema giudiziario italiano, grazie al quale siamo all’avanguardia nella lotta al terrorismo odierno, siano stati trattati con così poca considerazione? Perché lo Stato non ha voluto riconoscere fino in fondo il merito a chi combatteva il suo vero grande nemico? Dov’erano i garibaldini che avrebbero dovuto accompagnarlo nell’impresa titanica? Rimane solo tanta amarezza quando si leggono le parole disilluse e profetiche di Falcone nelle ultime pagine di Cose di Cosa Nostra: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno».
Ma se dopo quasi vent’anni il ricordo di quell’uomo così lucido e schietto è ancora commovente e appassionato, anche grazie alle parole di chi gli è stato vicino, significa che Falcone non è morto invano, anzi, vive dentro ognuno di noi, oggi più che mai.

(sintesi di Emanuele Malpezzi)

Da mafie


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