La vertigine linguistica de “La veglia” per “Altrescene” al Centro Zo di Catania

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CATANIA – Si snocciola dalla vertigine delle urla di un parto (che pare isterico, plateale) “La veglia”, terzo frammento di un trittico dal titolo “Santa Samantha Vs – sciagura in tre mosse, – Lo zompo e Mari/age” – di Rosario Palazzolo che il Centro Zo ha presentato per “Altrescene” – rassegna di creazioni contemporanee.

Nella stanza-studio della scena la protagonista Carmela attende il corpo della figlia, Santa Samantha, morta suicida, sulla cui restituzione incombe il veto della Chiesa. Toccherà ad una platea di video-spettatori deciderne il destino e a Carmela, un’apparente “signuruzza” televisivamente stuprata nei dettagli della sua esistenza lungo una soap-opera imposta e forzata, convincerli a suo favore. Inghiottita da uno studio televisivo e dalla voracità del pubblico, Carmela è costretta ad un doppio gioco dialogico (quasiad una condotta bipolare): col pubblico stesso che assiste allo spettacolo e con il regista-demiurgo (da nome “simbolico” di Piero-Angelo) tanto misterioso quanto onnipotente, alternando il doppio legame oppositivo – off air-vero; on air-falso – all’interno di una trasmissione che le impasta e le aggruma tutte: talk show e telepromozione; reality e talent game; varietà e rotocalco: il niente in forma di tutto. Ma “La veglia” rompe subito ogni finzione scenica – “vi fa impressione se io parlo con voi?”, dice Carmela rivolgendosi al pubblico – attestando da un lato la sua valenza meta-teatrale, dall’altro smascherando l’assunto di ogni trasmissione che si finge in “diretta” ma è in realtà già preparata minuziosamente; qui però c’è cognizione dello e nello show: Carmela è un Truman consapevole, che mette a nudo il rapporto tra attore e pubblico, ne rovescia i ruoli – anzi li unifica, che smaschera la falsa competenza degli opinionisti, pur soccombendo alla ineluttabilità della macchina mediatica.  Ogni sequenza dello spettacolo è una finzione, il parossismo di una verità che diventa inconoscibile, che invece viene sorpassata, negletta.  Il linguaggio drammaturgico di Palazzolo, che cura pure la regia del monologo, si arrampica per forza di cose, per sua intrinseca necessità, su lacerti di luoghi comuni, deraglia in idioma gergale, in dialetto vivo e animalesco, vira verso una vox espressionista, diventa gesto muto ma eloquentissimo, impasto iperbolico di filosofia trash e di saggezza grazie soprattutto alla prova interpretativa di un istrionico Filippo Luna, capace di alternare magistralmente tormento e struggimento, collera ed ironia, strazioe stupore. C’è insomma una verità tremenda e spaventosa che si allarga poco a poco, ma inesorabile, dentro la finzione de “La veglia”: “si può esagerare solo con le cose ingannate, fasulle ma non con la verità”, ricorda ad un certo punto Carmela. “La veglia” è così una profondissima riflessione sulla neotelevisione, sulla sua capacità fagocitante e manipolatoria di sfruttamento (che si guarda bene dal mettere in dubbio) anche di una marginalità sociale – incarnata dalla protagonista – che lì, nel fittizio dominio del femminile (che ne nasconde l’abuso), destina anzi, attraverso il rito onnipotente del telecomando rosso o verde, alla perdizione e all’annullamento.


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