Tagli all’editoria. E’ anche il crepuscolo delle emittenti locali

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La legge di bilancio, approvata con voti di fiducia su di un testo ignoto ai più, contiene novità e sorprese, nonché diverse amare conferme.

E’ nota la revisione del fondo per il pluralismo, foriera di danni immediati e futuri per le testate locali, indipendenti e di opinione. Come è ribadita l’incredibile sforbiciata dei tax credit per le librerie e gli esercizi cinematografici previsti dall’omologa legge dello scorso anno. Una trovata “geniale”, vista la perdurante crisi della lettura e delle sale. Scuola, università e ricerca maltrattate costituiscono il filo nero, del resto, di un vero e proprio attacco ai saperi. Ritenuti forse, insieme ai media liberi, troppo ingombranti. Un sintomo ulteriore, anche per la sua gratuità, è il taglio riservato al Museo nazionale delle arti del XXI secolo (MAXXI) di Roma.

Ma, non ci si crede, si fanno a fettine pure le emittenti locali. Stupisce che la Lega, da sempre prodiga di attenzioni a quel mondo, abbia accettato le risultanze davvero mediocri del “tavolo 4.0” istituito presso il ministero dello sviluppo economico. E pure  proprio il ministro-vicepremier Di Maio inaugurando il tavolo  fornì rassicurazioni in materia.

Facciamo un passo indietro. La liberazione della banda 700 entro il 2022, per stornare risorse tecniche verso la tecnologia 5G e per il passaggio al digitale di seconda generazione (Dvbt-2) priva la televisione di una porzione di spettro storica. Le reti nazionali –dove malgrado tutto brilla sempre il duopolio Rai-Mediaset- non si possono toccare. In Italia chi mette le dita nella vecchia intelaiatura di potere prende la scossa. E il governo, dopo le dichiarazioni roboanti di inizio mandato, non smentisce le abitudini consolidate. D’altronde, il servizio pubblico è sotto assedio e Mediaset è un caso a parte, probabilmente un accordo “sottotesto” del centro-destra da cui la Lega non si è mai distaccata definitivamente. Insomma, da dieci Mux (blocchi di frequenze) nazionali scritti nel piano delle frequenze, si è passati a dodici, lasciando le briciole alle stazioni locali. Non solo. E’ stato dimezzato lo stanziamento destinato ai contributi previsti dal Dpr n.146 del 2017: da 117 milioni di euro a 50 (sarebbero 62,5; ma 12,5 rivolti alla cosiddetta pubblicità incrementale vale dire gli sgravi fiscali per gli inserzionisti). La quota dedicata a radio e televisioni nelle provvidenze per l’editoria è cassata a partire dal 2020.

In sostanza, si passa da trecento televisioni a una cinquantina, con un piccolo risarcimento per l’uscita di scena.

Finisce tristemente un capitolo glorioso, per di più scritto da soggetti titolari di concessioni d’uso ventennali. Si rischia una feroce e inesorabile disoccupazione, essendo 4000 gli addetti del settore, dei quali almeno 2000 giornalisti. Quantità –quest’ultima- superiore ai numeri della Rai e nettamente a quelli di Mediaset.

Un pasticciaccio brutto, reso persino brutale se confrontato con la generosità mostrata verso la Rai, che ha a disposizione 80 milioni in due anni per la digitalizzazione, ulteriormente supportata dagli incentivi per l’acquisto dei nuovi decoder. Quanti misfatti perpetrati in nome del “digitale”, declinato solo in Italia come aggettivo della televisione generalista, mentre nella sanità o nella pubblica amministrazione langue. Maglie larghe usate senza giri di parole, poi, verso il Biscione, visto che nel silenzio il gruppo di Berlusconi sta diventando dominante anche nelle “torri” di trasmissione del segnale. E poi la questione di Telecom, che si intreccia al resto per gli interessi mai smentiti della stessa Mediaset alla ricerca di uno sbocco strategico. Il governo tace?

Il maxiemendamento chiamato Legge di bilancio ha, poi, un’altra chicca. Si prorogano i termini per la presentazione da parte del ministero della attività culturali del regolamento sugli obblighi di produzione e investimento di film e audiovisivi italiani ed europei. Altra pacca sulle spalle. Anzi. Fa specie che nulla si sia scritto sugli affollamenti di spot, dilatati dalla recente direttiva “Media service” dell’Unione europea che pure poteva essere recepita in modo più rigoroso. E questa era l’occasione.

Qualcuno spiegherà? O è la “normalità televisiva”?


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