A colloquio con Gaspare Spatuzza

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Il Mulino

«Non so cosa possa avvenire in Cosa nostra. Non sono né pessimista né fiducioso. Sono realista. Pensate che si potrà tenere per sempre Giuseppe Graviano in carcere?
Il «jolly» di Graviano sono le sue conoscenze. Graviano non collaborerà perché non gli converrebbe. Ma è sempre una minaccia».
Era il 24 novembre del 2012 quando Gaspare Spatuzza, parlandomi del peso del mandamento di Brancaccio nelle scelte stragiste del biennio 1992-1994, esprimeva – con lucida semplicità – la sua opinione sul rapporto mafia-politica, sollevando una questione che tocca al cuore il futuro di Cosa Nostra; attraverso il ruolo giocato dai fratelli Graviano, richiamava, inoltre, la mia attenzione su una contrattazione ambigua e durata nel tempo.
Faceva riferimento a un jolly che, prima o poi, Giuseppe Graviano avrebbe provato a giocarsi puntando sulle sue “conoscenze”, su quei rapporti di cui aveva parlato allo stesso Spatuzza durante un incontro al Bar Doney, a Roma.
In quella occasione, Graviano aveva chiamato in ballo Dell’Utri e Berlusconi, ribadendo la necessità di portare a termine l’attentato allo Stadio Olimpico per “dare il colpo di grazia” e realizzare gli obiettivi per i quali erano state progettate le stragi: «Giuseppe Graviano mi comunica che avevamo chiuso tutto e avevamo ottenuto tutto quello che cercavamo, e questo grazie alla serietà di quelle persone che avevano portato avanti questa cosa […]  mi menziona nello specifico la persona di Berlusconi, in cui gli dissi se era la persona di Canale 5 cui mi dice che c’è nel mezzo anche un nostro compaesano, Marcello Dell’Utri […]. Io so che ci siamo messi attraverso queste persone il Paese nelle mani».
Quando nel giugno del 2017 sono apparsi sui quotidiani ampi stralci delle intercettazioni in carcere dei dialoghi tra Giuseppe Graviano e Umberto Adinolfi, non ho potuto far a meno di pensare al jolly di cui mi aveva parlato Spatuzza in uno dei nostri incontri.
Lasciando da parte la questione della loro veridicità, il registro delle dichiarazioni di Giuseppe Graviano, appare, infatti, connotato da un tono di “minaccia” che alterna attacchi molto duri contro lo stesso Berlusconi, ad accuse apparentemente prive di precisi destinatari (ricordiamoci, comunque, che Giuseppe Graviano non è un collaboratore). Queste accuse, però, insinuano pesanti dubbi su uomini e apparati delle istituzioni, fino a ventilare la circostanza che il proprio figlio e quello del fratello Filippo siano stati concepiti grazie all’ingresso delle rispettive mogli nel carcere palermitano dell’Ucciardone dove i fratelli Graviano erano detenuti in regime di 41bis: «dormivamo nella cella assieme, cose da pazzi. Tremavo, tremavo».
«Vedi che fare il figlio nel carcere, questo per me è stato un miracolo» (la Repubblica, 10.06.2017). Pensando al clamoroso depistaggio realizzato attraverso il falso pentito Scarantino, il mistero del concepimento dei figli dei Graviano potrebbe apparire una vicenda privata e di poco conto; in realtà, oltre alla sua intensa carica simbolica (legata alla funzione riproduttiva che proietta l’individuo oltre la sua morte, attraverso la creazione di un erede), l’episodio insinua il dubbio di un inspiegabile “beneficio” concesso a due mafiosi artefici e ideatori di stragi. Dubbio che manterrà immutata la sua forza fino a quando – speriamo quanto prima –  non verrà fornita, da fonte ufficiale, una spiegazione plausibile a queste nascite.
Ma l’attualità delle rivelazioni di Spatuzza non si ferma al jolly dei Graviano. Nell’incontro del 15 dicembre del 2012, a proposito del depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio (che lui stesso aveva contribuito a svelare), Spatuzza osservava: «Una menzogna per essere tale deve essere creduta. E in tanti, purtroppo, hanno creduto. […] Se non si capisce Via D’Amelio non si capirà mai nulla in tutta questa storia. Sulla strage di Via D’Amelio, però […] non c’erano solo gli uomini di Cosa Nostra».
Da quell’incontro sono passati altri sei anni, due da quando il libro è stato pubblicato, ma sulla strage di via D’Amelio rimangono ancora molti punti non chiariti. Basta leggere il capitolo VIII delle motivazioni della sentenza del cd. processo Borsellino Quater che riscostruisce la fase esecutiva della strage, per provare un misto di fastidio e di stupore: molte contraddizioni emergono dalle testimonianze di alti rappresentanti delle istituzioni interrogati sulla sorte della borsa di Paolo Borsellino, immediatamente dopo la strage.
Impossibile far chiarezza sul punto, è questa la conclusione cui giunge la Corte con un velato rammarico: «si può affermare, a conclusione dell’analisi delle fonti di prova su questa tematica, che l’istruttoria dibattimentale ha fatto emergere le persistenti zone d’ombra sull’argomento, anche per le notevoli ambiguità e la scarsa linearità di alcuni dei testimoni assunti, sovente in contraddizione reciproca fra loro».
Nessuna chiarezza neanche sulle “presenze esterne” registrate sul luogo della strage. E di nuovo ai giudici non resta che prendere atto «delle incongruenze nello sviluppo delle primissime indagini per questi fatti, se non delle emergenze addirittura inquietanti, in merito all’attività di soggetti estranei a Cosa nostra» .
A queste incongruenze e alla difficoltà di pervenire a una verità accettabile richiamano i ripetuti appelli di Fiammetta Borsellino a cercare dentro le istituzioni la pista per colmare questi vuoti.
Ed ecco che, rileggendo l’intervista con Spatuzza alla luce di questi nuovi eventi, mi sembra più semplice capire i silenzi, così numerosi nel suo racconto; silenzi a cui – dopo una lunga riflessione – ho deciso di dar “voce” nella stesura del libro. La storia di Spatuzza mi è apparsa impregnata degli umori delle vicende che lo hanno visto come protagonista e delle atmosfere dentro cui esse hanno preso vita. Un’esperienza che restituisce l’immagine desolante della mafia vista dall’interno; un racconto che testimonia un processo di contaminazione e contiguità tra mondi limitrofi seppur apparentemente lontani. Comprensibili, oggi più che mai, le sue “esitazioni” nel ricostruire dinamiche e vicende che neanche la magistratura è riuscita a mettere insieme: quelle lacune appaiono oggi come indizi di “verità” che orientano lo sguardo, seppur in modo parziale, verso il fondo del mistero.
Assumono, così, rilevo le opinioni di Spatuzza sul futuro di Cosa Nostra; un futuro che appare “realisticamente” incerto per via dei tanti misteri ancora insoluti, condensati intorno alle “presenze esterne” nelle stragi mafiose, al nodo mafia politica, alle gravi accuse che hanno coinvolto magistrati e uomini delle istituzioni.
«Pensavo che con la mia collaborazione si potesse aprire una nuova fase» mi aveva detto Spatuzza, aggiungendo subito dopo: «la verità però fa ancora paura». «Credo che alcune verità non si potranno mai comprendere appieno. È una storia molto ingarbugliata».
A questa storia ingarbugliata, a queste atmosfere cangianti ho cercato, senza edulcorazioni e senza enfasi, di dare spazio nel mio libro, ascoltando la testimonianza di Spatuzza: un attraversamento esistenziale che ha assunto le vesti di paradigma di un’epoca, un racconto di vita che è diventato anche una storia di stragi. Una testimonianza che ha fatto emergere la “scomodità” del riconoscersi solo una piccola pedina, chiamata a «giocare» una parte in un «gioco grande» e rischioso; una narrazione declinata in multiple sfaccettature che attraversa la dimensione personale dei dubbi, delle ambiguità, della richiesta di perdono e della conversione fino ad arrivare alla sfera “istituzionale” che vede il protagonista nel ruolo di collaboratore e di ex reggente del mandamento di Brancaccio.
Sperando che il realistico confronto con questa ambigua assenza di verità potesse contribuire a incrinare la versione “ufficiale” del discorso sulla mafia, ho cercato di dar visibilità a quegli intrecci criminali che non hanno ancora un nome, ma la cui presenza (ormai anche giudiziariamente acclarata) richiama ad una rinnovata riflessione, a un pensiero adulto e consapevole, che renda giustizia a chi, dentro questo “garbuglio”, ha perso la sua vita.

 

Da mafie

 


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