Il principe arabo e il bandito

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Mentre in Italia si discute se i rimbrotti del vicepremier Di Maio nei confronti di un gruppo editoriale che si distingue nella critica al suo governo costituiscano o meno un intollerabile attacco alla libertà di stampa, è passata quasi sotto silenzio, e comunque nell’indifferenza generale della politica, una notizia veramente orribile. Mi riferisco alla scomparsa dell’esule saudita Jamal Khashoggi che lavorava come giornalista per il Washington Post. Lavorando all’estero si era permesso quello che nel suo paese non sarebbe mai stato consentito: muovere qualche critica a sua altezza reale il principe ereditario Mohammed bin Salman.

Khashoggi aveva bisogno del nulla osta dello stato civile del suo paese per contrarre matrimonio, ma si era ben guardato dal tornare in Arabia Saudita per non correre rischi. Per questo si era rivolto al consolato saudita di Istanbul, che gli aveva dato appuntamento alle 13 del 2 ottobre. Quella stessa mattina con due aerei privati sono giunti ad Istanbul quindici cittadini sauditi, una squadra di specialisti della quale faceva parte anche un medico legale, che si è immediatamente recata nella sede del consolato dalla quale erano stati allontanati i dipendenti turchi. Secondo una fonte turca citata dal New York Times, «Khashoggi è stato ucciso entro due ore dal suo arrivo al consolato da un team di agenti sauditi, che hanno smembrato il suo corpo con una sega ossea portata per l’occasione».

Anche gli omicidi di mafia vengono fatti in questo modo. La vittima viene fatta entrare con un tranello in una stanza dove trova una sedia con delle corde. Dopo essere stato legato e torturato secondo la bisogna, il malcapitato viene strangolato. Dopo di che il suo corpo viene smembrato o fatto sciogliere nell’acido. Quando queste condotte sono poste in essere dai vertici di uno Stato, la violenza mafiosa viene moltiplicata per mille perché uno Stato è un’organizzazione enormemente più potente di una banda di ladroni.

E’ strano che nessuno in Italia si sia chiesto se è lecito che noi continuiamo a vendere bombe all’Arabia Saudita. Probabilmente la politica estera italiana si ispira al noto principio di diritto: pecunia non olet.

In realtà quando una leadership che non disdegna la violenza di tipo mafioso si impadronisce di uno Stato si crea una situazione di pericolo estremo, come insegna l’esperienza del nazismo.

Come negli anni 30 del secolo scorso, oggi ci troviamo di fronte ad un tornante drammatico della storia. Il ballottaggio del 28 ottobre deciderà se il potere di governo in Brasile deve essere consegnato a un bandito politico che, per temperamento personale e per ideologia non si differenzia molto da Adolf Hitler. Jair Bolsonaro è a un passo dalla presidenza del Brasile, ma all’indomani della vittoria al primo turno è urgente lanciare un grido d’allarme segnalando che si tratta di un nostalgico della dittatura militare che ha schiacciato il Brasile dal 1964 al 1985; che nell’intervento in Parlamento sull’impeachment a Dilma Rousseff  ha esaltato le gesta di Carlos Alberto Ustra, il capitano dell’esercito riconosciuto come torturatore della ex presidente negli anni della resistenza alla dittatura. Anzi se c’è una critica che ha rivolto ai militari golpisti è stata quella di essere stati troppo deboli perché si limitavano a torturare gli oppositori anziché ucciderli. Un leader che in campagna elettorale si è lasciato andare alla promessa che abolirà il Parlamento e che torturerà e ucciderà chiunque a sinistra gli si opponga. Non c’è da meravigliarsi se i suoi sostenitori girano con delle magliette su cui è raffigurata la testa tagliata di Lula.

Se il Brasile cadrà nelle mani di Bolsonaro, dobbiamo aspettarci lutti e sofferenze a fronte delle quali impallidirebbe persino sua altezza reale il principe ereditario Mohammed bin Salman.

di Domenico Gallo edito dal Quotidiano del Sud


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