John Le Carré – Un passato di spia

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Peter Guillam è una spia dei Servizi Segreti Britannici, o meglio lo è stato ai tempi della Guerra Fredda e prima della caduta del muro di Berlino, quando esisteva la ‘cortina di ferro’ e la Germania era spaccata in due tra est e ovest: l’una sotto il controllo dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia, difeso dall’Armata Rossa, l’altra tutelata dagli Stati Uniti e dal Patto Atlantico con il braccio armato della Nato (North Atlantic Treaty Organization). Due universi contrapposti per regimi e ideologie, ma perfettamente paralleli e in perenne reciproca competizione, perfino nella conquista dello spazio;  una corsa affannosa a prevalere nelle cui pieghe prosperava il controspionaggio e la lotta sorda tra il KGB russo e il SIS, più comunemente noto con il nome di M16, il Secret Intelligence Service inglese, affiancato senza troppo entusiasmo dalla CIA americana. Per la generazione allevata dai romanzi di Ian Fleming (di cui si festeggia l’anniversario della nascita) e dell’agente 007 alias James Bond, si tratta di uno scenario ben noto e di inesauribile godimento letterario. Ma per il protagonista del romanzo di John Le Carré (Un passato da spia, A Legacy of Spies, Mondadori pp. 261 € 20) rappresenta piuttosto un lungo capitolo da archiviare, essendo egli già in pensione da anni e tornato a vivere stabilmente in Bretagna, in ossequio

alle proprie origini per metà francesi, e felice di  gettarsi definitivamente alle spalle trascorsi piuttosto burrascosi e non sempre esaltanti. Se non fosse per un codicillo incancellabile: “Se le necessità del Circus lo richiedono, l’obbligo dei suoi membri a prendere servizio si protrae per tutta la vita.” Ed è quanto puntualmente avviene.  Una “mattina soleggiata di inizio autunno, tra l’indignazione dei polli che razzolavano in cortile e la sublime indifferenza di Amoureuse, la mia adorata setter irlandese, troppo impegnata a leccare i suoi cuccioli per occuparsi di miserabili faccende umane”, giunge  nella tenuta di Les Deux Eglises il postino, somigliante al generale De Gaulle, stringendo una lettera nella mano scheletrica; ed è la convocazione del Circus, come veniva affettuosamente chiamata “la pomposa dimora vittoriana di Cambridge Circus”: «Siamo autorizzati a offrirle un rimborso per le spese di viaggio in classe turistica, e una diaria di 130 sterline al giorno per l’intero periodo in cui si renderà necessaria la sua presenza».

Peter parte senza indugi ma con un cattivo presentimento che sembra materializzarsi già all’arrivo nella nuova sede dell’agenzia, “una grottesca fortezza sulle rive del Tamigi” che ospita il quartier  generale. A Londra ha dormito in uno squallido albergo vicino alla fermata di Charing Cross: “novanta sterline per una stanza grande come un carro funebre”, e per prudenza si è fermato da un amico fidato dei vecchi tempi al quale ha affidato il suo passaporto francese. Ed ora superati i vari metal detector, viene accolto per un colloquio all’ultimo  piano della costruzione, da una “donna vitale sulla quarantina, capelli corti e tailleur: «Salve Peter, felice di conoscerti. Sono Laura, vogliamo andare?»” Nella stanza viene accolto con studiata cordialità  da un “tizio di età indefinita, con faccia pulita, gli occhiali e l’aria di uno uscito da una scuola privata. In maniche di camicia e bretelle. La scrivania è ingombra di vecchi faldoni, una barricata di carte: «A proposito, io sono Bunny, un soprannome del cazzo lo so…». Insomma due degni rappresentanti delle nuove leve, o del nuovo stile del Circus, messi a caccia di un colpevole. A monte c’è un nome in codice, Windfall, a copertura di un’operazione segreta, o forse soltanto una fonte anonima oltre cortina, su cui l’interrogato dovrebbe fornire preziosi ragguagli. Bersaglio, i servizi segreti della Germania orientale, altrimenti noti come Stasi. E qui inizia una schermaglia in cui i partecipanti duellano a non esporsi, anzi a proteggersi individualmente dietro un muro di false o mezze verità, omissioni tattiche, improvvise smemoratezze; sempre più drammatici via via che la conversazione si trasforma in un vero interrogatorio ed emergono episodi del passato in cui qualcuno ha perso la vita, ma non si conoscono i responsabili. “«Dunque, quello che abbiamo qui, Peter, è un casino, un minestrone di grattacapi legali da risolvere», riprende Bunny più lentamente e a voce alta, dopo aver notato l’apparecchio acustico che sbuca dai miei riccioli bianchi”.  E’ successo che i figli di due agenti infiltrati e scomparsi in misteriose circostanze si siano alleati in una querela: vogliono che sia fatta chiarezza  e chiedono un risarcimento danni, oltre che delle pubbliche scuse con tanto di nomi dei colpevoli: «Sono convinti, e a ragione, che i loro genitori siano morti in un pasticcio del cazzo, la cui responsabilità ricade su questo Servizio, e in particolare su George Smiley e su di te”».

Si profila uno scontro di competenze, di iniziative disinvolte, di manovre ufficiali e segreti privati, di un torbido passato ormai rimosso, dimenticato dai più, ma che inopportunamente riaffiora per una inattesa congiuntura. Alla base c’è anche uno scontro generazionale, una incompatibilità di pelle tra due universi messi a confronto in un mondo che nel frattempo è radicalmente cambiato, e nel quale le antiche ferite mai rimarginate non possono più rivestire altra rilevanza che di dolorose cicatrici personali.

I file relativi a quella remota vicenda sono (non a caso) spariti dagli archivi, non rimangono più tracce scritte di cosa accadde, e solo Peter potrebbe, se vuole, riportare alla luce il disegno di una operazione di cui finge di non ricordare quasi nulla. Dal momento che il capo del controspionaggio, suo diretto e paterno superiore George Smiley, l’unico veramente in grado di ricostruire minuziosamente e per intero l’imbarazzante vicenda, è da tempo sparito, irrintracciabile. Troppo intelligente per farsi incastrare da quattro pivelli con la spocchia sul muso.

“Fu quando iniziai a recarmi nella Germania dell’Est che George Smiley, tracagnotto, occhialuto, perennemente preoccupato, entrò nella mia vita.” Rievoca Guillam. E il racconto comincia così ad intrecciarsi tra presente e passato, tra interrogatori supportati da rapporti di servizio, basse, verbali, comunicazioni strettamente riservate – per quel che rimane – e ricordi seppelliti che riemergono alla luce in un flusso di coscienza che non corrisponde – quasi mai – alle deposizione ufficiale del vecchio agente richiamato in servizio. Una trama aggrovigliatissima e avvincente che ci trascina con la velocità e gli scuotimenti di un toboga, all’interno di un ordito di filigrana e al cospetto di un potere agito in zone oscure e del tutto ignote alla società civile, se non per brevi, inafferrabili bagliori, impossibili da decifrare a occhio nudo.

Coinvolta, inestricabilmente, una giovane donna, Tulip, agente della Stasi, con un bambino, passata al controspionaggio inglese con il nome in codice di Doris Gamp. Sulla quale Bunny lo incalza: «Dimmi un po’ Peter, da uomo a uomo, te la sei scopata Tulip?» «No.» «Sei sicuro?» «Totalmente certo». «D’accordo. Torniamo da capo Peter. “Io, Peter Guillam, non ho scopato Tulip all’Hotel Balkan di Praga, la notte prima del suo espatrio nel Regno Unito” Vero o falso?» «Vero».

Un autentico sollievo, ironizza l’inquisitore, «dal momento che la regola numero uno di un Servizio che, a dire il vero, non ne ha molte altre, prescrive ai funzionari di non andare mai, mai, a letto con i loro agenti».

Ma il controcanto di Peter non si fa attendere: “ L’ho scopata? No, non esattamente. Ho fatto l’amore con lei, un amore muto e frenetico, nel buio più pesto e per sei ore sconvolgenti. Fu un’esplosione di tensione e sensualità tra due corpi che si erano desiderati da sempre e avevano a disposizione solo quella notte”.  Ich liebe Dich. La donna aveva un figlio adolescente, e andava incontro alla nuova vita fidandosi ciecamente di Peter: “«E il mio Gustav?» Chiese Doris, afferrandomi il braccio. «Andrà tutto bene. Prima o poi lo rivedrai». «E quando?» «Appena possibile. I nostri sono brave persone, vedrai. Ti amo». Spinsi Doris con garbo e lei atterrò riluttante, quasi di scatto, sul sedile posteriore”.

Eppure non aveva saputo proteggerla. “Se avessi dovuto lasciare il Servizio per sposare Doris e battermi per Gustav, l’avrei fatto. Ormai avevo deciso e nemmeno George, con la sua ricercata dialettica, sarebbe riuscito a farmi cambiare idea”. La separazione era stata struggente quanto il loro addio: “In silenzio, alle prime luci dell’alba, si era staccata da me poco alla volta, restando prima in piedi, dritta come una sentinella e completamente nuda, come quel giorno sulla spiaggia di Bulgaria, poi rivestendosi poco per volta delle sue sciccherie provenienti dalla Francia. Non era rimasto più niente da desiderare, tranne una gonna qualsiasi e una giacca nera allacciata fino al collo. Eppure il mio desiderio, lungi dal placarsi, si era fatto sempre più disperato”.

Durante  l’interrogatorio la situazione si complica; gli inquisitori vogliono visitare le ‘case’, sparse per Londra, di cui l’Intelligence si serviva per le sue misure di sicurezza. In quella denominata Campo 4, da un fienile si passava al «sottomarino», “una cella di isolamento costruita appositamente per istruire le reclute nella sgradevole arte di resistere agli interrogatori spietati o di tenerli a loro volta”.

Dalle storie di Le Carré apprendiamo, in parte, le regole del gioco, senza quartiere, delle guerre sotterranee, come da Graham Green avevamo compreso i tormenti morali, come da Fleming avevamo scoperto le meraviglie della tecnologia al servizio degli agenti segreti. Tutti e tre scrittori di altissima e rara maestria, ma il glorioso autore di La Talpa, ora ottantaseienne, possiede quella raffinata ironia, quel tocco di amabile understatement nell’uso della lingua, che a tratti viene proprio voglia di abbracciarlo.


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