Le mafie dovrebbero fare molta più paura dei migranti

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Il brutale omicidio di Bratislava è come uno scossone mentre sei assopito per riportarti alla realtà. Ci parla di una storia ben nota da anni: dopo l’unificazione con l’Europa dell’Est, pagata a caro prezzo – dico proprio in soldoni – dai cittadini del nucleo storico europeo – cioè da noi – il primo prodotto che l’Italia ha esportato è stata l’organizzazione criminale delle mafie. Nelle terre del centro Europa, governate oggi da repubbliche che sanno di regimi e si contraddistinguono per politiche di tipo fascista,  la più attiva è la n’drangheda calabrese che con ogni probabilità ha ucciso il giovane Ian Kuciag e la sua ragazza. Quasi tutti i governanti di queste regioni, impegnatissimi a innalzare muri per bloccare i migranti, come Orban in Ungheria (e che pena vedere cosiddetti leader politici italiani andarsi a genuflettere là), sono coinvolti in traffici con organizzazioni malavitose dentro le quali le storiche mafie italiane sembrano aver trovato – come ci spiega Saviano – il terreno migliore per dirottare e diversificare i propri traffici illegali e il riciclaggio dei loro soldi sporchi. Nell’indifferenza dell’Italia, nell’indifferenza dell’Europa. Il prezzo lo pagano ormai soltanto i singoli giornalisti che tenacemente e con una dose di coraggio che rende davvero onore alla categoria, insistono nelle loro inchieste e non mollano, sono in prima fila dai Nebrodi ai Panapa Papers e continuano a farsi “cani da guardi” del potere secondo regole antiche di un mestiere che oggi può costare sempre di più la vita.

Eppure, intorno a noi, nella società dove operiamo, negli uffici, nei negozi, nelle scuole, nei sempre più nefasti social networks sentiamo che esiste un problema di sicurezza, di paura, che non riguarda le mafie, le vere bande criminali, riguarda gli immigrati. Con forme di razzismo e, lo dico con dolore, di fanatismo che a mia memoria non ricordavo.

Il tasso di delinquenzialità reale, quello in numeri e cifre, che portano gli immigrati è risibile rispetto all’infiltrazione mafiosa nei gangli vitali di Italia ed Europa, eppure i cittadini sono convinti che esista da noi un problema sicurezza basato sulla presenza dei migranti. E oggi chi va a votare ha più paura di un senegalese al semaforo che non delle bande che gestiscono forse sotto casa loro il riciclaggio del denaro sporco o lo spaccio di droga anche verso i loro figli.

Della lotta alla mafia parla solo la stampa, i colleghi che la conoscono e pagano prezzi pesanti di vite blindate, minacce, attacchi subiti personalmente. Dei migranti parlano tutti i politici generosamente ospitati in TV da colleghi non minacciati e che conducono vite ben diverse da un reporter sul campo ma hanno in mano, ancora oggi nel 2018, lo strumento che determina l’orientamento politico del 78% degli italiani chiamati al voto.

Si è aperto ormai un gap profondo fra giornalismi veri, investigativi, quasi tutti di carta stampata, e giornalismo fatto da conduttori televisivi ben vestiti e ben stirati, amorevolmente accoccolati ai piedi dei potenti di turno soprattutto nelle temili fasce diurne della TV. Quegli spazi dove la parola mafia non può rigorosamente entrare, ma entrano invece a fiumi parole di odio contro qualsiasi diverso, determinando l’equazione insicurezza = emigrazione, che inciderà molto sulle scelte politiche di queste ore. Ed entrano parole insultanti da alcuni leader politici ai quali nessuno replica, se non una semplice madre di due bambini scuri che, come tali, dovrà trasferire da una città del nord perché non ce la fanno più. Dovremmo chiederci a chi giova aver distratto l’attenzione dalle mafie per spostarla solo sui migranti, e a chi giova aiutare i costruttori di muri nel centro di un nucleo europeo sempre più caratterizzato da politiche di tipo fascista e dovremmo anche ribellarci all’uso degli oggetti e della parola “cristiani” per identificare politiche opposte a 360 gradi rispetto alla parola del vangelo. A me continua a fare paura chi spara a Yan e a Dafne e non mi fanno paura i neri che ormai fanno parte della nostra società multietnica e lavorano nelle nostre case, aiutano i nostri vecchi, curano i nostri malati, riparano le nostre case, cucinano le nostre pizze. Loro sono amici. Quegli altri no.

 


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