La vendetta del padre che divora i propri figli: il femminicidio di Cisterna Latina non è un caso isolato

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Si fa fatica a ricostruire il femminicidio di Cisterna di Latina dove Luigi Capasso, carabiniere di 44 anni, ha ucciso le sue figlie di 8 e 14 anni, poco dopo aver sparato tre colpi di pistola all’ex moglie, Antonietta Gargiulo di 39 anni, che adesso è all’ospedale San Camillo di Roma. Sui giornali e in tv si continua la ricerca forsennata alla ricostruzione degli ultimi momenti: prima, quando Capasso aspetta sotto casa la ex per colpirla e prenderle le chiavi di casa, e dopo, quando l’uomo di barrica nell’appartamento per nove ore, con le due figlie che ha già ucciso, prima di suicidarsi. Ma come sia arrivato Capasso a vendicarsi di Antonietta Gargiulo, che voleva sfuggire al suo controllo, decidendo di uccidere le sue stesse figlie e ristabilendo così il potere su Antonietta e la prole che lei voleva sottrargli, è difficile da ricostruire.

Perché forse non è abbastanza spettacolare? Forse è una storia non interessante? Oppure è meglio trattare tutti questi casi come se fossero slegati tra loro, dato che quello che emerge è troppo difficile da spiegare?

Sappiamo che Antonietta Gargiulo aveva paura del marito che oltre a essere ossessivo era violento, e che si era rivolta all’associazione “Valore Donna” di Latina per cercare aiuto e che tramite loro era stata messa in contatto con la sua avvocata, Maria Belli, la quale giustamente fa notare: “Ci chiediamo cosa spinga i giornalisti a preoccuparsi di quanto bravo fosse come padre un femminicida, invece di impegnarsi a raccogliere informazioni su quanto fosse violento, se avesse o meno denunce a suo carico, in che situazione si trovava quel nucleo familiare dove non c’era niente di idilliaco”.

Un femminicidio (che ricordiamo è un termine sociologico coniato da Marcella Lagarde usato per indicare tutte le violenze che una donna può subire nella vita e che “possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di sofferenze fisiche e psichiche”), pensato e organizzato da Capasso come forma di rappresaglia contro chi voleva sottrarsi al suo potere, e che non ha nulla a che vedere con la gelosia, né con la non accettazione della separazione per fragilità dello stesso (come è stato ipotizzato in diversi talk show), ma soltanto con la violenza che viene esercitata dall’uomo nel momento in cui si sente defraudato di questo suo potere non è più esercitabile nei confronti della donna che ha scelto e i figli che ha procreato: oggetti di sua proprietà esclusiva di cui può decidere la vita, la morte, e la punizione che più gli sembra adatta. La stessa punizione messa in atto da Patrizio Franceschelli che nel febbraio del 2012 quando ha buttato giù da Ponte Garibaldi il figlioletto di 16 mesi per vendicarsi della madre che si era sottratta alla sua violenza; o di Roberto Russo che con un coltello ha ucciso la figlia di 12 anni e ferito la maggiore di 14 anni; oppure quella di Massimo Maravalle che ha soffocato il figlio di 5 anni tappando con una mano il naso e con l’altra la bocca (disegnato poi dai media come “genitore affettuosissimo”); o ancora di Sisto De Martin che ha ucciso la moglie e il figlio fracassando la testa a lei e tagliando la gola a lui; o di Gianpiero Mele, il 28enne che ha ucciso il figlio di due anni, descritto dai media come “un ragazzo modello dalla faccia pulita”.

Figli uccisi dai padri solo negli ultimi anni in Italia, femminicidi descritti dai giornali come frutto di crisi matrimoniali, litigi con la moglie, gelosia, separazioni, raptus, come se fossero moventi reali di una storia che si chiama invece pieno esercizio della patria potestà.

Valentina Pappacena, presidente di Valore donna, e l’avvocata Maria Belli dicono che non solo Antonietta Gargiulo aveva paura ma che anche le figlie avevano paura e non volevano vedere il padre. Sull’uomo pendeva un esposto per maltrattamenti e sebbene la donna non avesse proseguito sulla strada della denuncia, supplicata da lui che così avrebbe perso il lavoro, aveva messo al corrente anche i colleghi carabinieri dell’ex marito e aveva deciso di separarsi dopo aver subito diverse aggressioni fisiche e dopo che l’offender era andato via di casa. L’avvocata Belli chiarisce che “tutto si era aggravato quando, lo scorso mese di settembre, lui aveva aggredito la moglie davanti alla Findus, dove la donna lavora. Non solo, perché in precedenza l’aveva aggredita anche a casa, davanti alle bambine”, le quali erano “terrorizzate dal padre”.

Una relazione che non andava da tempo tanto che, come confessa lo stesso parroco di San Valentino che Antonietta frequentava: “un anno e mezzo fa li avevo mandati al centro diocesano di aiuto alle coppie in difficoltà”. E anche se nel suo esposto del 7 settembre Antonietta aveva scelto la procedura per la composizione tra le parti, un mese dopo aveva anche chiesto l’intervento dei servizi sociali perché non voleva che le figlie vedessero il padre da sole in quanto aveva paura per loro, dato che lui l’aveva denunciata per il fatto di non vedere le figlie e perché non lo faceva entrare in casa per prendere le sue cose. Antonietta quindi non era una sprovveduta e non solo aveva cambiato la serratura di casa e inoltrato una richiesta di separazione giudiziale ma era seguita da un’avvocata, aveva fatto un esposto, chiamato in causa gli assistenti sociali per proteggere le figlie, rifiutato tutti gli incontri che l’ex le proponeva, perseguitandola, e questo a dimostrazione che era consapevole della sua pericolosità. Antonietta in realtà aveva chiesto aiuto e azionato molti campanelli d’allarme che non sono stati però sufficienti a fermare un uomo violento al quale nessuno aveva tolto la pistola d’ordinanza: un uomo che era stato ritenuto idoneo dall’Arma malgrado la situazione fosse ben nota ai suoi colleghi ai quali Antonietta si era rivolta più volte raccontando della violenza dell’ex marito, che con quella pistola ha ferito gravemente la ex moglie e ucciso due bambine.

Ma perché il fattore di rischio è ancora sottovalutato dalle stesse istituzioni che vengono a conoscenza di fatti inerenti alla violenza sulle donne?

Per Lalla Palladino, presidente della Rete nazionale dei centri antiviolenza D.i.Re (Donne in rete contro la violenza)servono “efficaci misure di prevenzione da applicare immediatamente, nel momento stesso in cui una donna avvia una separazione legale da un uomo violento, o nel caso in cui il marito o ex compagno cominci a perseguitarla”, in quanto è ormai chiaro che quando “una donna decide di separarsi è un momento critico”. Segnalazione che poteva essere fatta anche dagli assistenti sociali che forse non si sono chiesti abbastanza perché Alessia e Martina, le due bambine, fossero così terrorizzate dal padre, un segnale che se opportunamente approfondito poteva far scattare l’allerta. “La bambina più piccola, quando le si chiedeva se voleva vedere il papà – spiega l’avvocata Belli – sembrava traumatizzata, non parlava, si limitava a scuotere la testa, facendo cenno di no”, mentre la più grande i primi tempi aveva mantenuto i rapporti con il padre, ma poi si era allontanata.

Storie già viste e ripetute, che non vogliamo ricordare perché la realtà è il vero inferno rispetto a quello che ci propone il mainstreaming: come quello di Antonella Penati, punita dall’uomo che aveva segnalato come violento e mai creduta da giudici e assistenti sociali che la disegnavano come una donna “esagerata”, e che si è vista riconsegnare il corpo del figlioletto, Federico Barakat, trucidato dal padre durante un incontro protetto a San Donato Milanese, malgrado il piccolo stesso avesse più volte espresso il desiderio di non vedere il padre che poi lo ha ucciso. Oppure Erika Patti, anche lei definita “alienante” perché aveva paura per i suoi due figli, Davide e Andrea di 8 e 12 anni, che il padre, dopo la separazione dalla donna, ha potuto uccidere e bruciare tranquillamente dato che aveva il permesso del tribunale di tenerli con sé malgrado la madre continuasse a dire che si trattava di un uomo violento.

Ma di casi in cui l’ex maltrattante continua a farsi scudo con i figli per continuare a controllare o punire la donna che si è ribellata al loro potere, sono numerosissimi, e se anche non si arriva a ucciderli, questi figli sono comunque percepiti dal maschio come oggetti di sua esclusiva proprietà per impostare un nuovo e perverso controllo nei confronti della donna. Tanti casi che rimangono “a rischio”, soprattutto se a essere complici di questa tortura sono le stesse istituzioni che invece di allontanare il padre violento, chiudono gli occhi e lo impongono a tutti i costi al minore che magari è impaurito, perché “un padre è sempre un padre”, e questo a costo di sacrificare il ruolo materno non violento.

Per Nadia Somma del centro antiviolenza Demetra di Lugo, “Qui in Italia ci sono uomini con condanne per maltrattamenti in famiglia che grazie a una CTU (Consulenza tecnica d’ufficio), in cui vengono descritti nei tribunali come incapaci di reagire a una separazione o addirittura vittime di false accuse da parte di ex mogli ostative, riescono a ottenere dal giudice l’affido condiviso, che per una donna che cerca di sottrarre se stessa e i figli dalla violenza, è come essere messa nella tana del lupo. In Emilia Romagna c’è stato un caso – continua – in cui un padre con una condanna in primo e in secondo grado, è riuscito a ottenere una mediazione in cui poi aggrediva l’ex moglie davanti alla psicologa che non solo non allontanava l’uomo ma neanche reagiva”.

Il tribunale di Lucca, pochi giorni fa, ha revocato l’allontanamento di un bambino che stava per essere spostato in una casa famiglia a centinaia di chilometri di distanza dalla madre, dalla scuola e da tutti i suoi affetti: allontanamento deciso perché il minore si rifiutava di vedere il padre agli incontri protetti. In questo caso la mamma era stata ritenuta responsabile della paura del figlio nei confronti del padre solo perché gli assistenti sociali non avevano tenuto in nessun conto la violenza che la donna aveva subito dall’ex davanti agli occhi del piccolo. “Un uomo che – spiega l’avvocata Manuela Ulivi del centro di accoglienza “Casa delle donne” di Milano – pur avendo una denuncia penale per aver messo le mani al collo della signora per strangolarla davanti al piccolo, sembra non avere responsabilità, e anzi per il tribunale è lei che aliena il minore impedendogli di vedere il padre”. Un’invenzione senza base scientifica, quella dell’Alienazione parentale, ormai usata a sistema dai tribunali italiani che non solo occulta la violenza domestica accusando le donne di false accuse nei confronti dell’ex, ma le reputa responsabili loro stesse di allontanare i figli da un padre che il più delle volte è un uomo violento, e questo in barba alla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne che vieta sia l’affido condiviso (art. 31) sia la mediazione (art. 48) nei casi di violenza domestica.

“Se un padre violento – aggiunge Ulivi – zigzaga con la famiglia in macchina in montagna dicendo che ucciderà tutti, la conclusione dei servizi sociali non può essere che non è pericoloso. La sensazione è che non c’è mai una prova sufficiente a dimostrare la pericolosità di un padre perché il padre non si tocca. Sono 30 anni che faccio questo lavoro – conclude – e non ho mai visto una cosa del genere: tribunali in cui si fa finta di niente davanti a maltrattamenti che il giudice civile vede nella separazione e non segnala in procura come dovrebbe.Una fatto che nei tribunali italiani succede una volta su tre, e si dà l’affido condiviso anche con condanne a 4 o 5 mesi nei confronti di padri maltrattanti, e anche quando le violenze sono evidenti, è sempre colpa delle donne che esagerano e alienano il bambino dal padre. Sono stanca, ne ho veramente tanti di casi così, questo è un sistema che non possiamo più ignorare”.


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