La scuola è un presidio costituzionale per illuminare le periferie

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Ho trovato la soluzione. Era sotto il mio naso, da tanto tempo, ma guardavo da un’altra parte. Più che una soluzione è una provocazione o un punto di appoggio per una leva abbastanza lunga da poter risollevare le sorti di una sinistra democratica e riformista schiantata dalla propria incapacità di ascoltare, parlare in modo chiaro e costruire un progetto di futuro condiviso.

M5S e Lega stanno riesumando le “convergenze parallele” e parlano solo di poltrone da spartirsi, ma se dovessero fallire, si rischia il ritorno in massa dei “forconi” dal Sud al Nord, passando per il Centro, ormai esangue di solidarietà e buona amministrazione socialdemocratica. Per questo il Pd, sconfitto, che sembra una specie in via di estinzione e fa quasi tenerezza, ha un ruolo importante e non può solo leccarsi le ferite.

Ma dove trovare un punto di appoggio, forte, chiaro e comprensibile, per risollevare le “magnifiche sorti progressive” di questo tempo, che rischia di essere “superbo e sciocco”? La soluzione è la scuola, da declinare in tutte le sue infinite articolazioni formative. La scuola è un presidio costituzionale per illuminare le periferie, ridare un po’ di speranza a chi è rimasto indietro e parlare ai giovani. A scuola nasce la cittadinanza e forse la “buona educazione”. La scuola è lo strumento fondamentale per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini (art. 4). Tutti i soldi disponibili, o quasi, dovrebbero essere investiti nella scuola, università e ricerca, in docenti qualificati, aule, laboratori, palestre, computer, formazione, mense e gite scolastiche per tutti, libri, teatro, cinema, musei, lingue straniere, viaggi consapevoli nei social media. Soprattutto al Sud, che ha una dispersione scolastica spaventosa, ma anche nel resto d’Italia, avvolta dal rancore.

La scuola deve essere bella, accogliente, sicura, aperta dalla mattina alla sera, ovunque e per tutti, dalle strade alle carceri. Si tengano aperte le classi con pochi alunni nei paesi sperduti; se sono troppo multiculturali ci devono essere tre o quattro maestri o professori per moltiplicare a dismisura l’attenzione e l’accoglienza formativa. Scuola e ancora scuola, assieme ai lavori socialmente utili, per i migranti, per insegnare la nostra cultura, le regole, la Costituzione, ottimo testo per imparare la nostra lingua. Moltiplichiamo le scuole tecniche e professionali secondo le richieste del mondo del lavoro, ma senza cedere alla logica del mercato che richiede solo abili esecutori da pagare meno possibile, anche quando sono bravi.

Per questo bisogna inserire a tutti i livelli scolastici la cultura scientifica, umanistica, storica e filosofica. Chi ha detto che un meccanico, un idraulico, un elettricista, un operaio, un contadino non possa “perdere tempo” con la filosofia, la storia, la letteratura, l’arte, la musica? Solo così si diventa “classe dirigente”, solo così si può decidere in modo consapevole e distinguere la scienza dalla superstizione, la realtà dalle “fake news” e godersi la vita, la bellezza, la cultura dentro e fuori l’orario di lavoro. Chi ha detto che non c’è abbastanza tempo? Basta allargare ed integrate il tempo della scuola con quello della vita. Le statistiche dicono che c’è un rapporto diretto tra povertà, poca salute e bassa scolarità. I “poveri”, quindi, devono avere dignità e lavoro, ma soprattutto più scuola, cultura, consapevolezza e spirito critico. Certo, è una “soluzione” vetero illuministica e nel corso della storia ne hanno parlato tantissimi, e forse più di tutti un certo Jean-Jacques Rousseau, che non è un sistema operativo a 5 stelle, ma un filosofo che “predicava” l’educazione come cardine del miglioramento dell’essere umano.
“La povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo. Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale”. Lo diceva uno strano prete, don Lorenzo Milani. A questo punto, vista la situazione, si potrebbe provare ad ascoltarlo.

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