Centrafrica. Dai diamanti nasce la guerra

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Il cardinale Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, non è disposto a fare passi indietro. “Il perdono non ha mai escluso la giustizia, al contrario. Chi ha commesso crimini deve ammetterli. Chiediamo semplicemente che tutti coloro che hanno fatto del male lo riconoscano. Il perdono viene in seguito, come una grazia che arriva”. Così l’alto prelato ha commentato l’indagine della Corte Penale Internazionale (Cpi) dell’Aja su “una lista interminabile” di crimini contro l’umanità commessi nella Repubblica Centrafricana prima, durante e dopo la guerra civile scoppiata nel dicembre 2012 quando i ribelli di Seleka (coalizione politica a maggioranza musulmana) costrinsero alla fuga il presidente Francois Bozizé, continuando poi a scontrarsi con gli “anti balaka”, milizie di autodifesa sedicenti cristiane.

A questo proposito va detto che la Cpi ha già condannato Jean-Pierre Bemba, ex vicepresidente della Repubblica Democratica del Congo, per le atrocità commesse tra la fine del 2002 e l’inizio del 2003 dalle sue truppe che aiutarono l’allora presidente centrafricano Ange-Felix Patassé, poi rovesciato da Bozizé il 15 marzo 2003.

Crimini e sofferenze lastricano dunque le vite dei 5 milioni di abitanti di cui il 40% necessita di aiuti alimentari. Per le Nazioni Unite nel settembre 2017 i rifugiati in fuga dalle violenze erano più di 513 mila, il massimo dallo scoppio della crisi del 2013. A questi si aggiungono 600 mila sfollati interni. L’Onu sottolinea poi come i fondi stanziati per fronteggiare la crisi siano intorno al 9%, ovvero tra le percentuali più basse di qualunque altra crisi al mondo.

Purtroppo stentano a decollare anche gli accordi firmati il 19 giugno 2017 a Roma nella sede della Comunità di Sant’Egidio tra 13 gruppi ribelli operanti in Centrafrica: un cammino verso il disarmo, la smobilitazione ed il reinserimento già indicato dall’Onu. Ma già il giorno successivo alla firma del cessate il fuoco, c’è stato il massacro di almeno 100 persone nella città di Bria dove si fronteggiano gli “anti balaka” ed il Fronte Popolare per la Rinascita del Centrafrica, una scheggia impazzita staccatasi da Seleka. Al cardinale Nzapalainga non è piaciuto il documento perché costituirebbe “una porta aperta verso l’impunità per gli autori di violenze”.

Papa Francesco con la visita nella capitale Bangui del 30 novembre 2015 (che i servizi segreti di tutto il mondo sconsigliarono vivamente per la pericolosità) cercò di accendere una luce per illuminare una delle crisi più dimenticate del pianeta.  Purtroppo nulla è sostanzialmente cambiato. Anche se le forze in campo si dicono musulmane o cristiane, il conflitto non ha radici religiose. Lo spiega bene il cardinale Nzapalainga: “Non siamo ciechi per non accorgerci che la crisi era legata ad interessi economici, petrolio, diamanti. I politici hanno aizzato le comunità una contro l’altra. Il fatto che i Seleka fossero aiutati da mercenari provenienti da Sudan e Ciad ha accentuato i malintesi. E poiché parlavano arabo, la gente li ha associati ai musulmani. I Seleka per l’80% sono islamici ma anche loro hanno sofferto molto negli scontri: è una realtà più complessa di quella che può sembrare a prima vista. Gli anti balaka sono frutto della reazione ai Seleka per vendicare i loro morti e spezzare il taglieggiamento imposto a chi non era dalla loro parte. Ma anche loro hanno ucciso tanti cristiani. Nei loro comportamenti non c’è molto di cristiano: sono solo dei violenti”.

I gruppi si scontrano per il controllo dei territori e dei commerci. Posti di blocco e tasse ai passanti sono il loro pane quotidiano. Ma sul piatto ci sono le ricchezze naturali. “Parigi mi ha spodestato perché volevo dare il petrolio del nord ai cinesi” spiega il presidente deposto Bozizé. Ci sono infatti riserve di greggio ancora da esplorare che si contendono la Francia e Pechino che intanto ha assoldato gruppi di ribelli per controllare i territori dove sarebbe localizzato l’oro nero. Mentre il confinante Ciad continua a coltivare “relazioni pericolose” con vari gruppi ribelli per tenere viva la destabilizzazione politica. A complicare le cose c’è infine il florido commercio di diamanti insanguinati, preziosi cioè che sfuggono alle norme di controllo internazionali e contribuiscono a finanziare i conflitti. Insomma sarebbe il caso che Papa Francesco ritornasse in Centrafrica sfidando di nuovo tutti.

Fonte: Confronti


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