Migranti, in Grecia minori in condizioni intollerabili: appello da Stoccolma

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Nelle isole di Lesbo, Samos e Chios, i centri sono sovraffolallati. I minori finiscono anche in strutture detentive. Melandri (Unicef): “Misure non giustificabili, un’alternativa c’è sempre”. Fillet (Ens): “Proteggerli è un dovere, nel ricordo di Alan Kurdi”. Schininà (Oim): “Condizioni di accoglienza hanno ripercussioni sulla salute mentale”

 

STOCCOLMA – Sono arrivati in Europa da soli, e ora vivono in condizioni al limite. In centri non idonei e sovraffollati, come gli hotspot, dove con l’arrivo dell’inverno, la situazione non potrà che peggiorare. Specialmente nelle isole, in cui già si vive in modo precario da mesi. A lanciare l’allarme sulla condizione dei minori migranti nei centri di detenzione in Grecia sono state le organizzazioni umanitarie, riunite a Stoccolma per il convegno “Migrant children and young people, social inclusion and transition to adultood”, una due giorni organizzata dall’European social network, per fare il punto sulla situazione dei minori migranti in Europa. Secondo i dati in Grecia ci sono circa 18.500 bambini nei centri di accoglienza per rifugiati, di questi 2.500 sono minori non accompagnati. I posti dedicati sulla terraferma sono poco più di mille, mentre circa 1650 si trovano in centri di detenzione, negli hotspot, nelle aree di sicurezza. Da settembre, infatti, il numero degli arrivi nella penisola ellenica è aumentato, e la situazione è diventata critica specialmente a Samo e Lesbo, dove oltre ottomila persone sono detenute in hotspot che hanno la capienza massima di 3000 posti. Il governo ha annunciato l’imminente trasferimento di circa duemila persone sulla terraferma, ma in queste ultime settimane, in particolare a Lesbo, sono aumentate le proteste dei migranti, che denunciano le condizioni deprecabili in cui sono costretti a vivere.

Un appello internazionale contro la detenzione dei minori migranti. “La detenzione dei minori migranti non è mai giustificata, o giustificabile, neanche con scusanti che tirano in ballo i principi di custodia e prevenzione. Bisogna lanciare un appello a livello internazionale per dire forte e chiaro che la situazione che si sta vivendo in Grecia è inaccettabile. I bambini non devono stare in centri detentivi, le alternative ci sono, sempre”, sottolinea Lucio Melandri, senior emergency manager di Unicef, che si dice preoccupato anche per la situazione dei centri in Libia. “Il problema per i minori migranti, inizia da lontano: innanzitutto dovremmo riuscire a prevenire che partano affidandosi ad organizzazioni criminali, cosa che invece avviene il più delle volte, perché in seguito alle politiche di sicurezza, all’associazione che troppo spesso si fa tra migrazione e potenziale terrorismo, tutti i paesi membri, e non solo quelli europei, hanno eretto muri, che favoriscono i cacciatori di migranti. Più si erigono barriere, più si incentiva il business delle organizzazioni criminali – spiega -. Se non riusciamo a prevenire questo, dobbiamo almeno garantire una reale protezione quando i minori arrivano qui: e questo non significa solo fornire cibo e un letto ma guardare a percorsi che tengano conto del miglior interesse per questi bambini. E cioè lavorare sull’inclusione, sull’inserimento nel mondo lavoro, sul tutoraggio. Più lasciamo questi ragazzi parcheggiati nei centri, più finiranno nella parte oscura dell’immigrazione. In particolare – aggiunge Melandri -. Quando i minori vengono messi in centri di detenzione, soltanto per il fatto di essere migranti, aumenta esponenzialmente il contatto con le organizzazioni criminali, che possono portare a situazioni ad alto rischio sociale”.  Come spiega Alfonso Montero, policy director dell’European social network, molti minori soli vengono presi in custodia dalle forze di polizia, e in assenza di alternative, vengono sistemati in centri detentivi. Questo li pone in una condizione di “vulnerabilità” che richiede il massimo dell’attenzione. In apertura dei lavori che hanno visto la partecipazione di 170 delegati di 22 paesi (rappresentanti politici, operatori sociali, direttori di ong, accademici), Christian Fillet, presidente dell’Esn, ha ricordato l’immagine simbolo del piccolo Alan Kurdi, che nel 2015 ha scosso le coscienze. Ora, sottolinea, bisogna pensare a come supportare questi bambini: “l’integrazione è l’obiettivo, i servizi sociali sono la chiave. Fondamentale è pensare al loro accompagnamento in ogni fase della vita”. “Dobbiamo mettere i bambini al centro del nostro agire, molti minori  scompaiono una volta arrivati in Europa – aggiunge Anna Maria Corazza Bildt, europarlamentare svedese di origine italiana -. In questo momento la situazione della Grecia è terribile, in particolare a Lesbo. Dobbiamo sostenere il paese pensando innanzitutto a come mettere in sicurezza i minori che vivono nei centri”. Il problema secondo Bildt è l’accoglienza, ma anche la narrazione che si fa sul tema e che risente sempre più del vento xenofobo che soffia dalle destre. “Non tutti gli stati hanno messo in campo i principi di solidarietà nell’accoglienza dei richiedenti asilo – aggiunge – Dobbiamo, invece, unire le forze per proteggere i minori che oggi sono vittime di violenza non solo in Europa, ma anche nei campi in Libia”.

Le condizioni di accoglienza influiscono sullo sviluppo dei minori, il rischio dell’abuso di alcol o droghe. Mettere i minori in centri di accoglienza non ideonei, come gli hotspot, influisce negativamente sulla loro crescita, ha ricordato Guglielmo Schininà responsabile dei servizi di Salute mentale dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). “Le condizioni di accoglienza, specialmente nei casi di detenzione amministrativa, determinano negativamente la salute mentale dei bambini” spiega. Tra maggio 2016 e settembre 2017, l’Oim ha seguito 408 casi in Grecia di minori stranieri non accompagnati richiedenti asilo (Uasc): 60 dei quali hanno ricevuto assistenza psicologica, 90 un’assistenza individualizzata. In molti casi è stato rilevato l’uso di droghe, ma anche comportamenti autolesionisti e inclinazioni al suicidio, oltre che ansia e abusi sessuali. “E’ evidente che il problema non è solo il trauma dell’essere migrante, e cioè quello che è successo nel passato ma anche quello che gli sta succedendo ora – spiega Schininà -. Per questo bisogna sviluppare un sistema di aiuto globale, con un sistema di supporto psicologico nei paesi di transito e di arrivo, ma anche soluzioni durature di inclusione, con cure adeguate all’età e alle varie fasi della vita”.

Dal tutoraggio all’accertamento dell’età fino al difficile passaggio all’età adulta: cosa si può fare per aiutare i minori? Anche per la ministra svedese per le politiche sociali, Asa Regnèr l’obiettivo è quello di creare una “open society”, una società aperta innanzitutto al cambiamento: “le migrazioni non sono iniziate nel 2015, ma molto prima – afferma – Oggi dobbiamo però ribadire con forza che ibambini hanno diritti, che vanno riconosciuti”. Per gli esperti riuniti a Stoccolma uno degli esempi positivi di tutela è contenuta proprio nella normativa italiana, nella recente legge Zampa che introduce, tra le altre cose la figura del tutore volontario. Per Jantine Walst, coordinatrice del programma per minori soli in Olanda, la questione del turore (guardian) è fondamentale: “è una figura che fa da ponte tra i minori e il servizio sociale, per questo non è necessario che sia un operatore sociale a farlo. Il sistema di tutoraggio – aggiunge – dovrebbe essere sviluppato a livello europeo”. Sulla stessa scia anche Lucio Melandri: “la legge italiana è tra le più moderne. noi di Unicef l’abbiamo sollecitata, supportata e ben accolta. Oggi si tratta di implementarla – sottolinea -. Troppo spesso i paesi esprimono buone intenzioni e quadri legislativi anche ottimali che non sempre si traducono in realtà operative e in una continuazione dell’impegno politico”. Tra gli altri aspetti critici la questione aperta dell’accertamento della minore età e il difficile passaggio e accompagnamento verso l’età adulta. Un punto in cui sono coinvolti in particolare gli operatori, che quotidianamente lavorano, non senza difficoltà nei centri. A farsi portavoce di queste istanza, Mahboba Madadi, a capo della Coalition for unaccompanied minors di Malmo. “Compiere 18 anni, e quindi diventare adulti, per molti ragazzi è un problema spiega – devono cambiare scuola, il luogo dove vivono e gli amici, che sono importanti per minori non accompagnati che non hanno una famiglia qui. Per non parlare di coloro che rischiano di essere rimpatriati, come nel caso degli afgani. La pressione sui minori è enorme: in alcuni paesi si sta lavorando bene ma c’è ancora molto da fare, bisogna trovare una soluzione al più presto, e bisogna trovarla ora”.  (Elonora Camilli)

Da redattoresociale


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