Salvemini: un austero galantuomo del Sud

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Socialista, storico, antifascista, contrario alle idee e alla visione del mondo di una certa intellighenzia salottiera, già allora avvezza a chiudersi nei propri circoli esclusivi e a parlarsi addosso, con supremo disprezzo nei confronti di coloro che diceva di voler rappresentare, Gaetano Salvemini costituisce uno degli esempi migliori di ciò che dovrebbe essere e di come si dovrebbe comportare un uomo di sinistra.
Non a caso, asseriva Bertrand Russell: “Quando parlano gli italiani colti mi capita spesso di non capire. Salvemini non deve essere colto, perché quello che dice lo capisco, e quello che pensa lo penserei anch’io”.
E Salvemini, che ovviamente era coltissimo, pensava, ad esempio, di doversi sempre battere dalla parte degli ultimi e degli esclusi, guardando il mondo attraverso i loro occhi e senza lasciarsi condizionare dal proprio status sociale e da un livello intellettuale che, inevitabilmente, lo poneva al di sopra di essi.

“Io – scrisse – mi mettevo dal punto di vista di un operaio, magari di un contadino analfabeta, convinto che essi avevano il diritto di capire, se volevano essere democratici per davvero e non sacerdoti di riti arcani”.
Era, dunque, un austero intellettuale del Sud, un pensatore e un politico coerente che non smise mai di battersi dalla parte di chi era nato indietro, contrastando ogni forma di ingiustizia, a cominciare dalla tristissima tendenza, purtroppo assai diffusa già allora, a porre i penultimi contro gli ultimi, scatenando una guerra fra poveri che era, secondo Salvemini, il principio della fine di qualunque tessuto democratico nonché il brodo di coltura ideale per tutti i fascismi e le pulsioni autoritarie.
Pagò, ovviamente, a caro prezzo il coraggio delle proprie idee, vedendosi costretto a fuggire come esule prima in Francia, dove fu tra i fondatori del movimento Giustizia e Libertà, e successivamente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, costituendo una fonte d’ispirazione, fra gli altri, per Arthur Schlesinger jr. (di cui, peraltro, ricorre il decimo anniversario della scomparsa), futuro ideologo del kennedismo.

Aveva una visione laica e lucidissima anche per quanto concerne la scuola pubblica, tanto che nel 1907 scriveva: “La politica scolastica del partito clericale non può essere in Italia che una sola: deprimere la scuola pubblica, non far nulla per migliorarla e più largamente dotarla; favorire le scuole private confessionali con sussidi pubblici, e con sedi d’esami, con pareggiamenti; rafforzata a poco a poco la scuola privata confessionale e disorganizzata la scuola pubblica, sopprimere al momento opportuno questa e presentare come unica salvatrice della gioventù quella. Programma terribilmente pericoloso perché non richiede nessuno sforzo di lotta attenta ed attiva ma solo di una tranquilla e costante inerzia, troppo comoda per i nostri burocrati e per i nostri politicanti, troppo facile per l’oligarchia opportunista che ci sgoverna”. Parole assai significative, concetti che richiamano alla mente l’analisi di Calamandrei in merito alla centralità, diremmo quasi all’imprescindibilità, della scuola pubblica nella trasformazione dei sudditi in cittadini.

Ci lasciò esattamente sessant’anni fa, due giorni prima di compiere settantaquattro anni, al termine di un’esistenza avventurosa e difficile, segnata dalla lotta, sconvolta dal fascismo e caratterizzata dal tenace rifiuto di arrendersi a qualsivoglia forma di barbarie.
Non sorprende, purtroppo, che il suo rigore morale, la sua competenza e la sua profondità di pensiero siano oggi pressoché misconosciuti, essendo immersi in una società e in un contesto politico che egli avrebbe profondamente avversato e disprezzato, rifiutandone la superficialità, la pochezza e, più che mai, la solenne ipocrisia.


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