La Brigata Cirio 

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È una piccola storia di crudeltà e ironia, amiche che spesso vanno in coppia. È la storia di una colonna per nulla infame, semmai con tanta fame e di un soprannome che calzava a pennello tanto era perfetto negli anni dell’immediato dopoguerra, secondo conflitto mondiale. Italia ancora spaccata negli interessi, negli affetti, nelle parti che si ridistribuivano tra vincitori e vinti. In quell’Italia concreta dove portare a casa abbastanza cibo era una priorità dall’esito affatto scontato e dove le caserme diventavano meta di un pellegrinaggio quotodiano da parte di chi nella misticanza di alleanze e tradimenti della guerra aveva perso tutto. Molti erano fascisti ancora convinti che prima o poi la storia avrebbe ridato le carte e una buona mano sarebbe toccata di nuovo anche a loro. Altri erano semplicemente partiti per una guerra tutto sommato incomprensibile, visto che l’Italia del 1938 aveva poca libertà ma un ruolo riconosciuto anche nei posti al sole; poi leggi razziali e speranze di guerre lampo avevano fatto il resto. Tanti erano tornati scoprendo che cinque anni sono troppi per ricomporre affetti o che le bombe alleate sulle città o i rastrellamenti di tedeschi e repubblichini avevano spazzato via le radici di intere famiglie. Insomma erano sbandati, vagabondi spesso incapaci di stendere la mano, chiedere un’elemosina, un po’ perché non lo sapevano fare un po’ perché sarebbe stato ammettere una povertà disillusa. Il racconto filmico più bello è quello di Umberto D., di Vittorio De Sica.

In quella condizione due volte al giorno, dopo pranzo e dopo cena, si presentava una colonna di fame nel retro delle caserme, dove l’ordine era quello di cucinare più del dovuto, rispetto al numero dei militari presenti. Strumenti tecnici di quel mettersi in fila aspettando gli avanzi del rancio di giornata erano due, una latta che un tempo conteneva cibo conservato, nella maggior parte dei casi salsa di pomodoro, pelati o legumi vari e un cucchiaio meno pungente in tasca di una forchetta e abbastanza duttile da poter sostituire anche un coltello se usato con forza e precisione. Il soprannome di quell’esercito affamato, metteva insieme caserma e latte di pomodori pelati: li chiamavano “la Brigata Cirio”. Si rideva con poco e molti di quella brigata avrebbero poi trovato una loro strada nella ricostruzione, affrancandosi dal retro delle caserme e magari facendo anche fortuna negli anni del boom economico italiano. Cavalieri, commendatori della Repubblica, venivano da quelle fila e qualcuno di loro, a dimostrazione di quanto era stata dura e quanto aveva lottato per riemergere, lo ammetteva come avrebbe ammesso di essersi conquistato una medaglia. Siccome ogni storia deve comprendere anche il parlare di oggi, sennò che cronaca sarebbe, la misura della povertà dei giorni che stiamo vivendo ha due registri, due lavagne per altrettrettante colonne: il livello di reddito che certifica lo stato di indigenza di troppe famiglie e i sei milioni di italiani che faranno vacanze cittadine, alternando passeggiate nei giardini pubblici a visite interessate a mercati rionali economici. Ovvio che mettere queste colonne di italiani davanti allo Ius Soli, al diritto di essere cittadini con pienezza di diritti di quanti sono nati in Italia indipendentemente dall’etnia di provenienza è una prova crudele. Che, come dice il premier Gentiloni, non ci siano le condizioni politiche per approvare una legge chiara su quel diritto di nascita, per primo sancito dalla rivoluzione francese che andò ben oltre qualificando cittadini quanti anche solo lavoravano in Francia, è palese. Ma la domanda che mi faccio, e mi scuso del passaggio alla prima persona, è se il metro giusto di un diritto sia il confronto con la povertà o se invece non sia una valutazione sul diritto stesso. In parole più semplici, se agli uomini della Brigata Cirio avessero chiesto di esprimere un parere sullo Ius Soli avrebbero analizzato questa eventualità con rigore e profondità o avrebbero chiesto un altro mestolo di zuppa?


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