Aemilia. Va in scena la seconda offensiva degli imputati contro il lavoro dei giornalisti

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Sono circa le 18 di giovedì 13 luglio quando nel prefabbricato del tribunale di Reggio che ospita il processo alla ‘ndrangheta va in scena la seconda offensiva degli imputati di Aemilia contro il lavoro dei giornalisti che raccontano le udienze. La prima risale al gennaio 2017, quando gli avvocati difensori si fecero portavoce di una singolare richiesta al Tribunale: fuori la stampa e processo a porte chiuse. In subordine proposta ancora più singolare: al mattino prima del dibattimento lettura degli articoli per valutare la correttezza di ciò che è stato riportato.

Una sorta di processo alla stampa da anteporre al processo agli imputati.

Il collegio guidato dal presidente Francesco Maria Caruso rigettò quella richiesta e lo fece, per una fortunata coincidenza, proprio il giorno del ricordo, davanti al tribunale di Reggio, di un giovane e bravo giornalista ucciso dalla camorra napoletana: Giancarlo Siani. La sua auto, una Mehari verde, in quelle settimane percorreva simbolicamente la via Emilia da Piacenza al mare per ricordare a tutti noi emiliano romagnoli che senza una libera informazione non c’è una libera società. E che in difesa di questo valore c’è chi ha pagato con la morte.

La replica è avvenuta in una forma completamente diversa: una sollevazione apparentemente spontanea, scatenata durante la deposizione di un consigliere comunale che raccontava i suoi difficili rapporti con la stampa. L’avvocato Stefano Vezzadini, difensore di Gianluigi Sarcone, fratello di uno dei capi della ‘ndrangheta emiliana già condannato nel rito abbreviato, ha preso la palla al balzo per dire: “Lo vediamo tutti i giorni anche in questo processo che i giornali scrivono cose non vere; l’ultima è di ieri l’altro”.

A quel punto l’aula di Aemilia è diventata il classico bar della periferia emiliana dove ognuno, mentre si gioca la partita di scopone, dice la sua sulla politica italiana o sulle tensioni internazionali tra Stati Uniti e Russia, alzando anche volentieri la voce e mandando altrettanto volentieri a quel paese chi la pensa diversamente.

A mandare a quel paese, anzi: “In galera!” i cronisti del processo Aemilia, ci hanno pensato gli imputati dietro le sbarre, con gli sguardi e le braccia tesi verso i tre giornalisti in quel momento seduti a prendere appunti. L’invito/speranza dei detenuti è volato ben chiaro per l’aula, seguito da una seconda frase: “Siete falsi, scrivete articoli falsi”.

Ad uscire dal bar per ritornare nell’aula del tribunale ci hanno pensato alla fine due semplici battute del presidente Caruso e del PM Mescolini. Il primo ha detto: “Basta” ricordando che ci sono norme e strumenti precisi a cui ricorrere per contestare il contenuto di un articolo. Il secondo ha tirato fuori il semplice buon senso dicendo: “Errori negli articoli ci possono essere ma qui si dà l’idea, inaccettabile, che ci sia una persecuzione degli organi di stampa nei confronti degli imputati”.

Riflettiamo un attimo sull’accusa: “I giornalisti scrivono cose non vere. L’ultimo articolo falso è stato scritto ieri l’altro”. Ma scritto da chi, su quale testata, su quale argomento e con quali elementi scorretti?

La domanda successiva è di conseguenza: all’avvocato Vezzadini interessa veramente che i giornalisti non commettano errori o preferisce “sparare nel mucchio”? Vendere l’idea di una informazione “falsa”, visto e scontato che le cronache (vere) delle udienze di Aemilia, con dovizia di dettagli, riscontri e testimonianze, raccontano la presenza reale, diffusa, profondamente radicata, della ‘ndrangheta nei nostri territori declinando nomi e cognomi dei protagonisti di questa storia?

Farebbe un servizio molto migliore al suo assistito (se danneggiato da un articolo) indicando i dati precisi del presunto errore e chiedendo una rettifica alla testata, ma dopo un anno di udienze non risultano richieste in rispetto dell’art.8 della legge sulla Stampa.

Si è sentito invece molto bene l’auspicio “In galera!” rivolto dai detenuti a noi giornalisti, ed è inevitabile mettere in risalto il paradosso: loro che sono a processo e dietro le sbarre, che vivono con i diritti e le restrizioni garantiti e stabiliti dalla legge, in attesa dei risultati di un giusto processo, hanno già raggiunto all’unanimità il verdetto nei confronti dei giornalisti: “Siete falsi!” e stabilito la pena: “In galera!”. E nell’urlare verdetto e pena sanno benissimo che i giornali li riporteranno rendendo edotta della cosa l’intera comunità.

C’è da augurarsi a questo punto che alla prossima udienza l’avvocato Vezzadini intervenga difendendo con eguale veemenza il diritto dei giornalisti ad un giusto processo senza anticipazioni arbitrarie di sentenze o accuse non provate riferite con parole al vento (le sue) nell’aula di un tribunale.


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