Rogo Centocelle non è stato un orrore razzista
ma cultura dell’odio resta e va contrastata

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«Siamo stati noi?». «Macché, è stata una vendetta tra di loro…». Leggendo i commenti sui social è lampante quale sia il sentimento prevalente, anche se non mancano messaggi di cordoglio e di solidarietà, tra la gente dopo la tragedia del camper incendiato a Centocelle.
Poco importa se in quel rogo siano morte, arse vive, tre sorelle rom di 20, 8 e 4 anni.
E più il contesto è caratterizzato da degrado, assenza dei basilari dell’integrazione, della legalità, della sicurezza, più forte è la cultura dell’odio, del pregiudizio, dell’esclusione sociale, termine che più si addice al modo con cui molti italiani, e anche politici e diverse amministrazioni comunali, guardano il “problema” dei Rom.
L’indignazione rischia di durare lo spazio dei riflettori dell’informazione. Poi si tornerà alla routine con i conflitti di tutti i giorni, con la precarietà dei rapporti e con il ‘fastidio’ nelle coscienze individuali e collettive verso una ‘comunità’ reietta.
E allora è d’obbligo chiedersi: occorre solo assicurare alla giustizia la mano assassina o si deve, si può, fare di più?
Chi frequenta questo sito non ha dubbi sulla risposta ma quanti nell’era dell’egoismo sociale, in questa società pronta ad alzare muri davanti a chi tende una mano in richiesta di aiuto, sentono che sia un dovere civico, morale, politico e istituzionale, fare di più?
Quanti si soffermeranno più del minuto e mezzo di un servizio del tg su cosa sia giusto fare? Tempo un mese, forse meno, nessuno ricorderà più quel rogo e i nomi di Elisabeth, Angelica e Francesca.
Ma noi no. Dedicheremo a loro la nostra continua battaglia contro lo ‘hate speech’, la campagna per ‘illuminare’ le periferie di cui poco o nulla si parla.
Anche se in questo caso non sembra sia stato un atto di razzismo, ma una vendetta tra Rom, il razzismo c’è lo stesso. Erano in 13 in quel camper, che non doveva stare lì, in un parcheggio.
Organizzare dei campi rom a Roma non è mai stato facile. La gente non li accetta.
Per gli ‘ultimi’, gli ‘esclusi’, la consapevolezza di una possibile integrazione, già difficile ed eternamente fragile, è sempre più blanda. Impercettibile.
Non bastano le solite frasi di circostanza, anche quelle dettate dal buon senso. Serve partire dal contesto nel quale matura l’esclusione, bisogna lavorare, anche su un piano culturale, per rimuovere i pregiudizi, per restituire fiducia a chi in questi anni l’ha persa e nelle difficoltà alza barriere egoiste e razziali.
Le questioni sociali vanno affrontate con più risolutezza per poter affermare la dignità e il diritto di tutti a una vita più serena. Lo dobbiamo a quanti vivono in gravi condizioni economiche, a quanti sono ai limiti della povertà, a quanti raggiungono il nostro Paese per fuggire da guerre e carestie, a quanti trovano la morte in mare e non conosceranno più la parola libertà, a quelle tre sorelle che sono bruciate vive in un giorno qualsiasi di maggio.


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