“Manchester by the sea” di Kenneth Lonergan

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Lee Chandler è un individuo solo, scorbutico, spigoloso, barricato in se stesso, di pochissime parole. Ancora giovane e fisicamente forte, sbarca il lunario come tuttofare in un complesso residenziale di Boston, al soldo di un grasso amministratore orientale che, nel suo ufficio sovraccarico di scartoffie, lucra su li lui pagandolo quattro soldi. Dalla mattina alla sera Lee esegue lavoretti di pronto intervento negli appartamenti dei condomini, lo scarico ostruito, il rubinetto che cola, la cantina da svuotare, la doccia che non funziona nelle pretese della casalinga in cerca di attenzioni. Ma Lee è inavvicinabile e impenetrabile, non risponde alle domande insidiose, non simpatizza con nessuno, malgrado le lamentele dei clienti per i suoi modi spicci e avari di convenevoli. Si limita a compiere il proprio dovere senza risparmiarsi e la sera si ritira in un angusto seminterrato con una finestrella a livello della strada a bere una birra davanti alla TV, o qualche volta seduto al bancone di un bar, pronto a menar cazzotti se qualcuno lo fissa più del dovuto.

La mattina, uscendo di casa, spala la neve che si è accumulata nei vialetti, sfidando il gelo con indumenti dimessi. Un giorno gli giunge al telefono la notizia che il fratello maggiore è morto, e lo attendono in ospedale per un ultimo saluto; anche perché c’è bisogno di lui per la successione. Lee prende una settimana di permesso dal lavoro e si mette in macchina per raggiungere Manchester by the sea, a un paio d’ore di guida più a nord sull’East Coast, nel Massachussetts. Rimugina tra sé il momento in cui  i medici avevano diagnosticato al fratello pochi anni di vita a causa di una disfunzione cardiaca; c’era la famiglia al completo intorno al letto del malato, gli anziani genitori annichiliti, e la moglie, una bionda alcolizzata, che aveva lasciato la stanza abbandonando il marito e il figlio al loro destino.

Il fratello Joe, amato da tutti in paese, morendo ha indicato lui come tutore di Patrick, un adolescente di sedici anni; dovrà curarne gli interessi fino alla maggiore età, decidendo dei pochi beni rimasti, la casa, un barca a motore per la pesca d’altura.  Un compito imprevisto a cui Lee vorrebbe sottrarsi, non si sente all’altezza e non ha nessuna intenzione di tornare ad abitare a Manchester by the sea. Tergiversa divorato dal disagio, incapace di trovare le parole da opporre all’educata insistenza del funzionario disorientato dal suo rifiuto.  Lee vuole bene a Patrick da quando era piccolo e uscivano in barca insieme a suo padre; ma non è un ragazzo facile. Nella squadra di hockey su ghiaccio del college è considerato una promessa, se non fosse per il suo carattere rissoso, ribelle, indisciplinato. E’ un rosso di capelli, lungo, sveglio, simpatico e anche rispettoso, ma poco incline a rinunciare alle proprie convinzioni. Quando si recano a visitare il padre morto all’obitorio, esce subito dalla camera mortuaria con un senso di repulsione; non sopporta la prospettiva che a suo padre non venga data sepoltura fino a quando la terra del cimitero sarà troppo dura per scavare una fossa. L’idea del genitore congelato lo attanaglia, al punto da subire una violenta crisi di panico quando a casa alcuni polli congelati scivolano fuori dalla cella del frigorifero finendogli addosso. Lee cerca di calmarlo, di stargli vicino nell’unico modo che conosce, con ruvida praticità e scarne parole. Patrick (l’eccellente Lucas Hedges), che pure è affezionato allo zio, non ha nessuna intenzione di seguirlo a Boston. Nella sua cittadina conduce un’attiva vita di relazione, e si divide tra due fidanzatine che cerca di portarsi a letto; anzi quando va a studiare a casa di una delle due, vorrebbe che lo zio gli facesse da spalla distraendo la madre, una signora ancora piacente e disponibile, per impedirle di andare a bussare ogni minuto alla porta della stanza.

Insomma Patrick sta troppo bene nel suo ambiente per distaccarsene: “Tutti i miei amici sono qui, ho due fidanzate e suono in una band. Tu fai il custode a Quincy! Che diavolo ti importa dove vivi!” Non è d’accordo nel liquidare i pochi beni di famiglia, e meno che mai la barca del padre che rappresenta le radici, la propria identità, e alla quale è legato visceralmente.  Zio e nipote entrano in aperto contrasto, soprattutto perché Patrick senza saperlo (ma chissà?), con la vitalità dei suoi anni sta tentando di stanare Lee dal carcere in cui si è murato vivo per vicende gravissime del passato. Lo spettatore le apprende a frammenti man mano che la storia si dipana tra ricordi, flashback, angosce  trascinati in un unico flusso narrativo.  Cosa è accaduto a Lee di così grave da bruciare letteralmente la sua esistenza? Per quale ragione rifiuta con tanta ostinazione la vita, trincerandosi dietro un lavoro insensato solo perché gli offre una tana da cui escludere ogni contatto col prossimo?

Dopo lo scontro iniziale, lo zio cerca una soluzione per accontentare il nipote, e ritirarsi in buon ordine affidando la tutela a un amico fraterno del padre. Ma ormai troppe caselle hanno cambiato posizione. Durante  le esequie alla Funeral Home, Patrick ha ripreso i rapporti con la madre, che si è rifatta la vita in un’altra città;  e lo stesso Lee incontra molto turbato l’ex moglie Randi (Michelle Williams) da cui è separato, e che è in attesa di un bambino con un altro marito. La vita va avanti inesorabile, è impossibile fermarla, è impossibile congelarla anche quando il dolore annidato nel cuore sembra non lasciare scampo e non ammette alternative. Lo spettatore saprà quale tragedia abbia tolto all’uomo la capacità di stare al mondo. Eppure non tutto è perduto: Lee, in casa del fratello sta osservando una collezione di armi dietro una vetrinetta. “Chi vuoi ammazzare?” Gli domanda irridente Patrick. “Pensavo che vendendole potremmo comprare un motore nuovo alla barca”. Forse il disgelo sta arrivando, si intravvedono le prime crepe.

Il finale è sulla barca che sta filando verso il largo, con Patrick ai comandi istruito dall’amico del padre, e Lee seduto a poppa su una cassa a guardare la costa che si allontana, immobile e squadrato come un dipinto cubista di Picasso.

Lee è interpretato con molta finezza da Casey Affleck, fratello del più noto Ben, leggermente penalizzato dal doppiaggio; non è giusta la voce che gli è stata assegnata, e neppure l’intonazione che, se è plausibile nella lingua inglese, diventa manierista in italiano. Il film è però straordinario, appartiene a quel filone ‘spiritualistico’ che si è affrancato dalla fanfara hollywoodiana, grazie a registi come Terrence Malick,  Christopher Nolan, il canadese Denis Villeneuve. E  ora Kenneth Lonergan, classe ’62, sceneggiatore e drammaturgo newyorkese figlio di due psicanalisti abituati a discutere in casa, “senza far nomi”, i loro casi clinici; già autore con Martin Scorsese di Gangs of New York. Nella direzione degli attori, nella costruzione della storia e nella scelta dei tempi sembra un autore si scuola inglese, allevato nella tradizione teatrale britannica più che all’Actor’s Studio americano. Gli attori di spalla, persino le ultime comparse, sono curate in ogni minimo dettaglio,  nel sembiante, nell’espressione, nella gestualità, nelle battute di dialogo, credibili al punto da farci dimenticare, per 137 minuti di film, di stare davanti a uno schermo.


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