Muore il Giullare Fo nel giorno del Nobel per la letteratura al menestrello Dylan

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E ora caro Dario hai finalmente raggiunto in cielo la tua musa inseparabile Franca, per mettere in scena il tuo Mistero Buffo sognato da sempre insieme ai tuoi amati protagonisti di tanti spettacoli, Gesù e San Francesco, i tuoi riferimenti laici artista iconoclasta, anticlericale, anarchico, ostinato a ripristinare i valori autentici della cristianità. Nel giorno della morte del Giullare italiano, Nobel per la letteratura quasi 20 anni fa, il Menestrello Bob Dylan, anche lui un “artista di strada”, riceve il tuo testimone con il riconoscimento dello stesso premio. Che strana coincidenza del destino in questo cabalistico 13 ottobre freddo e inzuppato dal nevischio!

In questo palcoscenico della vita e della storia esce così di scena un maestro ed entra un altro grande: due culture e due modi di espressione diversi, comunque due maestri del Folk. Entrambi con la loro arte popolare hanno dato voce alla parte meno rappresentata del mondo: gli umili, i derelitti, gli oppressi. Certo, vite, epoche, culture diversissime. Fo, figlio di un capostazione attore dilettante, vissuto tra la Seconda guerra mondiale, la ricostruzione, il boom, gli “anni di piombo” e il “berlusconismo”. Dylan culturalmente figlio del baby-boom, di umile famiglia ebraica, infarcito di musica blues e rock, una volta divenuto famoso e ricco, si è sempre tenuto lontano dall’agone politico. Non certamente Fo, fin dagli inizi impegnato nei cabaret, fucine di attori e cantautori anticonformisti, da sempre esponente di punta del “teatro civile”, di denuncia, perseguitato dalla censura, emarginato nei teatri di periferia, più amato all’estero che in patria.

Ecco, Dario era l’anima inquieta, la coscienza artistica e critica delle giovani generazioni che diedero poi vita ai movimenti studenteschi. Insieme a Franca vi ci si tuffò dentro, partecipando al “Soccorso rosso”, l’organizzazione di assistenza legale ed economica per quanti venivano arrestati o ricercati. Per questo suo impegno “libertario” fu messo al bando anche dal PCI, che per un po’ lo aveva reclutato tra i suoi artisti. Con Franca e la cooperativa di attori, tecnici, scenografi e musicisti formò la Comune, partendo dalla famosa Palazzina Liberty di Milano, per poi tenere intere stagioni nelle principali città, specie a Roma. E fu qui, in quei primi anni Settanta, che alcuni di noi “sessantottini” fummo quasi rapiti intellettualmente dal suo fascino di giullare, di grande artista fuori dal coro e di persona sempre disponibile.
Grazie a lui e ai suoi spettacoli (il mitico Mistero Buffo, Morte accidentale di un anarchico, Ci ragiono e canto), conoscemmo un modo di fare teatro atipico, lontano anche da quell’avanguardia che andava imponendosi un po’ dovunque in Italia. Era un lavoro davvero collettivo, anche se Mistero Buffo era la sua creatura più individuale che sia mai stata messa in scena da un teatrante.

Per alcuni anni, impegnato nell’organizzazione della Comune di Roma, ho avuto il privilegio di seguire le riunioni del collettivo, fumoso e “scazzoso”, ma alla fine creativo e, soprattutto, di vedere per ore ed ore le sue prove sul palcoscenico o nei corridoi dei cine-teatri (al Tiburtino, al Prenestino e, da ultimo, nel lontano e malfamato Quarticciolo).

Si è fatto un gran parlare della sua tecnica di improvvisatore, di affabulatore in grammelot, ma Dario non lasciava mai nulla all’estemporaneità, anticipava nelle prove le battute, le richieste e le risposte che sarebbero venute dal pubblico. Una sorta di preveggenza o di capacità d immedesimarsi nel “sentire collettivo”, specie sui fatti di cronaca politica, di scandali, di lotte operaie o studentesche. Per questo Mistero Buffo in realtà cambiava ogni sera. Il cabaret assumeva con lui la veste dignitosa del teatro e il teatro si trasformava in un enorme cabaret con migliaia di persone che interagivano con lui.

Autore, attore, regista, scenografo, coreografo, pittore, cantautore (indimenticabili alcune canzoni scritte per Enzo Jannacci e Giorgio Gaber): tutto questo faceva di lui una sorta di enciclopedia umana della “Commedia dell’arte”, la più antica e inimitabile tradizione italiana medievale e rinascimentale dello spettacolo. Come lo ha definito l’autorevole quotidiano francese Le Monde, Dario era “l’erede diretto dei Tabarins e degli Arlecchini, autore di commedie buffonesche e politiche, uomo capace di qualunque sorpresa. Lavorava sull’immediatezza. Un “animale da scena”, capace di tenere viva l’attenzione di due mila persone, divertendole. Dotato di una scrittura che passava più per il corpo, la voce, le emozioni recitative, che per essere letta. Un attore che sapeva presentarsi senza maschera, facendosi capire sia con le parole che con la precisione della mimica e dei gesti, per il suo favoloso talento nel saper scegliere l’istante, utilizzare l’incidente di percorso, per la sua improvvisazione geniale”.

Molti registi, attori ed autori devono ancora oggi la loro carriera artistica alla “scuola” del tutto particolare della Comune.

Il suo impegno politico in quegli “Anni di piombo” andò di pari passo con la difesa di Valpreda, dei leader di Lotta Continua, accusati per l’assassinio del commissario Calabresi e tanti altri estremisti ricercati: alla fine di ogni spettacolo c’erano sempre le “collette” per qualche fabbrica occupata, per un gruppo di lavoratrici, che stavano per essere licenziate, o per sostenere le spese di turno per qualche “processo politico”. Un’altra Italia, che è rimasta nell’immaginario collettivo della sinistra radicale e che ha portato Dario ad abbracciare sempre le posizioni politiche innovative, ritenute in grado di sovvertire la “morta gora” del panorama politico italiano. Da ciò il suo slancio emotivo verso il Movimento 5Stelle di Beppe Grillo, uno dei tanti epigoni artistici del grande maestro.

Eppure Dario resta un “unicum” sia nel teatro sia nel suo impegno sociale. Un maestro cui molti artisti oggi ancora si ispirano e che da lui hanno tratto le tecniche di espressione e di fare teatro: Paolo Rossi, Grillo, Roberto Benigni, lo stesso Gigi Proietti, per fare qualche esempio. E tanti altri, più giovani, che, provenienti dal cabaret o da esperienze minori, hanno compreso che l’arte della comicità si deve sposare con la musica, la mimica, l’improvvisazione e la satira sociale e politica.
Ma un altro Dario Fo, per ora, non si vede proprio all’orizzonte.


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