Il G8 e quegli scarponi sul confine della democrazia

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Quindici anni dopo: il rischio è (ri) raccontare se stessi, l’autoreferenzialità oppure fare una delle solite (stanche) celebrazioni oscillanti tra l’amarcord e un rito che “si deve fare”. Credo che per l’esperienza vissuta come cronista a il Secolo XIX (all’epoca autonomo e non ancora inglobato nel nuovo cartello editoriale ReStaSeco, Repubblica, Stampa, Secolo) e segretario sindacale, prima, durante e dopo il G8 oggi non si possa prescindere non tanto per il ricordo, quanto per un’analisi meno emotiva e più (se possibile) razionale, da un aspetto che riguarda direttamente il mondo dell’informazione: sapere esercitare il diritto dovere di fare e ricevere informazione come giornalisti e per il diritto ad essere informati dei cittadini. Senza mediazioni e soprattutto (ecco il nodo irrisolto 15 anni dopo) senza deviazioni o tentativi di deviazione: un capitolo rimasto irrisolto, poco indagato e poco censurato quello del portavoce (Roberto Sgalla) dell’allora capo della polizia De Gennaro. A 15 anni da quei giorni credo sia utile riprendere questo tema.

Giusto per un inevitabile sintetico ricordo/cronaca credo che per la Fnsi attraverso la Ligure il luglio del 2001 abbia segnato per davvero l’attenzione verso il mondo del lavoro autonomo, dei meno garantiti, delle nuove multimedialità giornalisti. Per le botte prese, il fumo, i lacrimogeni, il risvegliarsi o vedersi con un po’ meno ragnatele su telecamere, microfoni e taccuini. Non solo perché la Ligure con altre associazioni regionali (Veneto, Emilia Romagna, Umbria, Puglia, Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta, Basilicata, Marche, Abruzzo) ponevano in modo duro (e non sempre seguito con adeguata attenzione dal mondo giornalistico) il tema della precarietà e del lavoro autonomo o free lance, ma perché quella vicenda, con gli oltre 1300 (sui 4400 giornalisti accreditati al summit) free lance di ogni nazionalità assistiti con un miracolo dalla Ligure, gli arresti, i feriti gettò in faccia a tutti una realtà del nostro lavoro poco considerata a fronte di grandi capacità di lavoro soprattutto multimediale. Lì con l’allora presidente dell’ordine dei giornalisti della Liguria, Attilio Lugli, costruimmo una grande battaglia, altro che le camarille e le rincorse di oggi in cui l’ordine non riuscendo più a fare l’ordine prova a sopravvivere a se stesso e, maldestramente, a fare il sindacato.

Il resto è cronaca e storia, sì storia, con i processi (Diaz, Bolzaneto, assalti e devastazioni di black bloc e no), le molte documentazioni prodotte da gruppi di giornalisti e dalla stessa Fnsi e Ligure, e i molti lati ancora oscuri: come andò davvero in piazza Alimonda (morte di Carlo Giuliani), chi era politicamente presente nella sala comando della Questura di Genova, i 300 episodi di violenza di piazza e aggressioni a manifestanti spesso pacifici, mai risolti, le aggressioni e distruzioni in danno dei fotogiornalisti, tanto per citare i casi più noti. Da allora a oggi la capacità di testimonianza e militanza (sulla notizia, poi ciascuno dalla oggettività dei fatti dovrebbe e potrebbe costruire le proprie analisi, critiche, accuse) del mondo dell’informazione si è consolidata, pur tra alti e bassi.

E siamo allora al nodo del rapporto con le fonti, le versioni ufficiali, di comodo, le nostre convenienze come proprio in quel periodo quando uno dei premi (beffardamente celebrato proprio a Genova) del Gruppo Cronisti Nazionale vide tra i referenti i portavoce delle varie “Armi” a premiare i migliori cronisti. Padrini di un premio che avrebbe dovuto premiare chi alle versioni di comodo o ufficiali, non si adegua. Ma il nostro mondo non è spesso diverso dallo splendido (e a volte strambo) paese in cui viviamo.

Ricordate la storia/bufala del lancio delle bombe di sangue infetto di Aids sulla polizia diffusa prima dei giorni del summit? Roberto Sgalla (per onestà di cronaca, nei processi non è mai stato coinvolto) scende pesantemente in campo la sera della Diaz. Quando di fronte a decine di giornalisti spiegava che le tracce sulle scale erano concentrato di pomodoro e che le ferite degli arrestati per associazione a delinquere (tutti assolti) erano pregresse, figlie degli scontri di piazza dei giorni precedenti. Poi il capolavoro della conferenza stampa nella questura di Genova, il giorno dopo: decine di giornalisti, sul tavolo tra i corpi di reato come la famosa molotov taroccata, due pettorine gialle (pure clonate dalle forze dell’ordine come testimoniarono due fermo immagine dell’allora Tg5) della Fnsi sequestrate a un collega tedesca arrestata e pestata alla Diaz. In piedi la responsabile dell’Urp della Questura. Perentorio Sgalla: verrà letto un comunicato, non ci sono domande. Un po’ quello che sarebbe accaduto anni dopo quando ad Arezzo in Questura dovevano spiegare cosa accadde sulla A1 nell’assurdo sparo di un agente che provocò la morte di un tifoso laziale.

È stato un ruolo poco indagato, non tanto giudiziariamente quanto giornalisticamente e politicamente, quello di Sgalla. Perché rappresenta un ruolo fondamentale nel rapporto anche fiduciario con le fonti istituzionali grandi e piccole. E di come istituzioni grandi e piccole vorrebbero (vogliono) comunicare. L’informazione poi è cosa diversa e dovremmo farla noi giornalisti. La montagna di violenze (non solo delle forze dell’ordine ma anche di parte dei manifestanti travolti o trascinati o in qualche caso condivisi con i black bloc) e di indagini ha finito con il lasciarlo in secondo piano. Non doveva lasciarlo l’inchiesta giornalistica. Eppure Sgalla non era un cattivo agente e funzionario, anzi. Lo dico con amarezza e la passata stima di un’amicizia personale, di avere girato un po’ di mondo con lui con zaino e poco bagaglio. Era un altro mondo, era un altro Roberto Sgalla impegnato all’epoca nel processo di sindacalizzazione della polizia di stato. Il giorno dopo la Diaz al non si fanno domande di Sgalla rispose un boato multilingue. Ma quanti, dopo, in mille altre occasioni hanno risposto a situazioni simili?

Ho provato qualche mese dopo il G8, con un libro (Ripensare la polizia, ci siamo scoperti diversi da come pensavamo di essere; sottotitolo ripreso e utilizzato da Lucarelli in un suo special televisivo sul G8) ad affrontare il tema di cosa c’è dentro, dietro, un casco o uno scudo di un carabiniere, un poliziotto, un agente penitenziario in piazza in quei giorni. Risposero non in molti alle interviste, mai in modo significativo su come era, poteva essere un qualsiasi operatore in ordine pubblico, la più efficace fu Angela Burlando, ex vice questore di Genova in servizio al G8, animo socialista, una delle prime donne in polizia e anima dei processi di sindacalizzazione: “ci siamo riscoperti diversi da come pensavamo di essere” disse.

Oggi, noi giornalisti, possiamo dire che 15 anni fa, in larghissima parte siamo stati come si doveva essere. Oggi lo siamo ancora? Quegli scarponi sul confine della democrazia li ricordiamo ancora o siamo tornati spesso, in questura come a una conferenza stampa di un padrone del vapore, a sgomitare per essere in prima fila e avere un buon rapporto con il portavoce di turno?

Non ho risposta, oggi sono prepensionato da quasi tre anni, collaboro alla formazione dei colleghi con l’Odg e il sindacato, con gli studenti-detenuti nelle carceri. Ma spesso, anche tra i più giovani della nostra professione, vedo intolleranza sui temi della deontologia che non sono solo regole base per una professione degna di questo nome. Deontologia è anche (soprattutto) rispettare le fonti, ma verificarle sempre anche quando sono di grande simpatia. Pena un giorno risvegliarsi come raccontava l’ex vice questore “diversi da come pensavamo (o dovevamo) essere”.

Infine una notizia (in un buon pezzo la notizia, il lead, dovrebbe essere nelle prime righe ma in questo caso sarebbe autoreferenziale): a ottobre a Genova con la Ligure, la Fnsi con “la penna più forte della spada” rifletteremo e analizzeremo i giorni e il ruolo dell’informazione di 15 anni fa. Arrivederci…


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