Guerra civile in Turchia

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Gli incendi della repressione che con il pensiero ai momenti meno luminosi dell’impero ottomano Erdogan ha appiccato in tutto il paese, portano i segni di una guerra civile a bassa intensità. Egli è già andato ben oltre una sia pur smisurata reazione al tentativo di destituirlo dal governo e forse liquidarlo una volta per tutte. Militari e magistrati d’ogni ordine e grado, professori universitari, docenti di licei e perfino di scuole elementari, editori e giornalisti, personalità religiose, dipendenti pubblici e imprenditori privati: sono finora 70mila tra arrestati, licenziati in tronco e sospesi dalle rispettive funzioni. Numerose e documentate le denunce di torture. Ampiezza e profondità dei fronti interni immediatamente aperti dal presidente sembrano escludere che il fallito colpo di stato l’abbia davvero colto di sorpresa.

Nella notte dei duelli aerei tra insorti e governativi, in un gioco tattico in cui a ogni mossa dei primi Erdogan e i suoi fedelissimi hanno saputo opporre la contromossa vincente, gli scontri a fuoco, i morti e i feriti hanno consumato uno scisma sanguinoso e irrecuperabile. Cambia fin alle radici una società e uno stato che geografia e storia collocano strategicamente a cavallo tra Europa e Asia, il loro patto sociale e culturale. Cambia natura il governo di un uomo che ormai manifesta senza più alcuna remora la sua natura tirannica. Con l’obiettivo ormai dichiarato di schiacciare metà del paese sotto il dominio di una forza che mobilita i suoi fanatici miliziani per calpestare la Costituzione. E’ un mutamento che dissesta ulteriormente l’intera regione mediorientale, già in guerra.

La drammatica frattura è duplice e si propaga per cerchi concentrici. La prima non è nuova ma diventa insanabile: oppone, all’interno dell’universo islamico, il sempre più estremista Recep Tayyip Erdogan  al moderato Fethullah Gulen, l’ispiratore e predicatore del diffusissimo movimento Feto, esule da una quindicina d’anni negli Stati Uniti. Il presidente turco gli attribuisce la paternità del tentativo di rovesciarlo, tanto da pretenderne l’immediata estradizione dalle autorità di Washington. La seconda è forse ancor più grave, in quanto sebbene Erdogan non lo dica esplicitamente, di fatto il suo governo determina un’aperta discontinuità rispetto al principio di separazione tra stato e chiesa voluto da Kemal Ataturk, il padre della Repubblica.

Le forze laiche e liberali turche sono oggi tenute in scacco dalla repressione.  Si sa di molte persone fuggite nelle ultime ore dal paese e di altre costrette a restarvi nella clandestinità, nascoste in rifugi fuori mano o presso amici meno esposti alla persecuzione dei servizi segreti. Innumerevoli coloro i quali ad Ankara e a Istambul restano chiusi in casa per ridurre i rischi di essere intercettati dalle bande di fanatici che percorrono le strade inneggiando al potere islamico, in quella lingua araba che Ataturk aveva epurato. La Turchia appare un paese spaccato, scisso tra opposte visioni del mondo e della fede religiosa. Quanti e quali spazi rimangano aperti alla convivenza per i quasi 80 milioni di turchi è un’incognita che agita le cancellerie europee e del mondo. Mentre sprofonda in un incubo la Turchia più moderna.

Gli interrogativi più inquietanti riguardano infine le forze armate della mezzaluna, gravemente lacerate dagli ultimi avvenimenti. Il loro livello di armamento e preparazione tecnica è tra i più alti del mondo, costituiscono il contingente più poderoso della NATO, che per evitare una loro rincorsa alla bomba atomica li ha associati a uno speciale programma nucleare dell’esercito degli Stati Uniti. Dalla fondazione della Repubblica, si sono considerate depositarie dell’indipendenza e della laicità dello stato. Ancora nel 1997, costrinsero alla rinuncia il maestro politico di Erdogan, l’allora primo ministro Necmettin Erbakan, nazionalista musulmano, contrario all’occidentalizzazione della Turchia. Da allora però, i governi successivi hanno costretto alle dimissioni centinaia di generali e ufficiali superiori, indebolendone notevolmente la tradizione kemalista.

E’ stata questa la politica dei piccoli e meno piccoli passi praticata con crescente decisione da Erdogan, che nei suoi studi dei rapporti storici tra potere civile e potere militare anche oltre frontiera, secondo alcune testimonianze non ha trascurato -prestandovi anzi particolare attenzione- quello di Stalin con le proprie forze armate. Nel lungo duello con Trotzky, in cui non mancarono spregiudicati colpi di mano, l’allora capo sovietico preparò la sconfitta dell’avversario divenuto nel tempo un nemico mortale, depurando a più riprese i quadri militari e del partito di quanti non gli garantivano la più assoluta fedeltà. Nessuno -salvo forse i servizi d’informazione degli Stati Uniti- sanno valutare quale sia oggi il rapporto di forze tra le opposte tendenze all’interno delle forze armate turche. Ma certamente la loro compattezza è compromessa, aprendo la via agli scenari più oscuri.


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