Udine, la punta estrema dell’Italia che non sa accogliere

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Di Angela Caporale

Non sarà certo la consueta pioggia friulana a fermare il gruppo di migranti, tutti ragazzi con meno di 30 anni, che aspettano i volontari per mangiare qualche biscotto, bere un tè caldo, raccogliere le coperte per dormire, un’altra notte ancora, nel sottopassaggio della stazione ferroviaria di Udine.Il copione è sempre lo stesso: arrivano i volontari dell’associazione Ospiti in Arrivo con le loro pettorine catarifrangenti e, tra le luci al neon che arrivano dall’interno e l’andirivieni dei fari delle automobili, un disordinato gruppo silenzioso di migranti si prepara a dormire in quello che, negli ultimi mesi, è diventato quasi un dormitorio di fortuna.

Sono state le prime giornate d’autunno a creare questa situazione: se prima chi non riusciva ad essere accolto nelle strutture ufficiali dormiva al parco, la pioggia e il vento hanno reso questa soluzione impraticabile. Il sottopassaggio secondario della stazione è sembrata la soluzione ideale – anche perché vi erano già altri “inquilini”.

Giorno dopo giorno, la “jungle” friulana ha preso forma, come racconta Susanna, volontaria di Ospiti in Arrivo, “la stessa Polfer si è sempre dimostrata disponibile e comprensiva. Anche tra i passanti c’è chi evita accuratamente ogni contatto e chi si avvicina, curioso, a noi volontari per chiedere come fare per aiutare.

Secondo le stime di OiA, sono state più di 2000 le persone a transitare e dormire in stazione negli ultimi mesi, con picchi anche di 150 a notte lo scorso dicembre. Il flusso non è costante, ma si parla di circa dieci nuovi arrivi al giorno. Ospiti in Arrivo opera formalmente dal dicembre 2014 e, raccontano, c’è sempre stata gente costretta a dormire fuori, in strada.

Fino a qualche giorno fa la situazione era drammatica: durante la settimana di Pasqua, ci sono state notti in cui più di 70 persone hanno trovato rifugio nell’area della stazione. Non sono mancate le proteste e le denunce di degrado, tant’è che il prefetto Zappalorto, solo qualche giorno fa, ha dichiarato al Messaggero Veneto che si adopererà per chiudere il sottopassaggio: “Chiuderemo i cancelli da dentro. Non possiamo più permettere che questa situazione si ripeta“.

Sebbene non sia seguito alcun provvedimento esplicito, martedì sera un gruppo di volontari della Croce Rossa, responsabili dell’ex caserma Cavarzerani che oggi accoglie più di 500 profughi, ha prelevato direttamente dalla banchina esterna della stazione un gruppo di ragazzi per portarli nell’ex complesso militare. Mercoledì, invece, è toccato alla Polizia dare seguito ad un ordine di sgombero del sottopassaggio: chi ha un qualche documento, compreso l’”invito” rilasciato dalla polizia di frontiera, deve dirigersi al campo di via Cividale, chi non ha nulla in mano, passerà la notte in Questura per procedere con l’identificazione.

Abbiamo un problema, abbiamo un problema. Puoi aiutarmi?“, chiede Hussain, 1 metro e 50 di uomo quasi sommerso dalle sue coperte che corre come una trottola per il primo binario trascinando con sé una borsetta di plastica rosa che contiene tutti i suoi averi. Hussain è in Italia da qualche giorno, come tutti gli altri è arrivato dall’Austria, come (quasi) tutti gli altri proviene dal Pashtunistan, un’area compresa tra Afghanistan e Pakistan, roccaforte storica dei gruppi Taliban e, per questa ragione, area fortemente colpita dai conflitti emersi dopo il 2013.

Nyazy, invece, è sconsolato: non c’è posto per lui nel sistema di accoglienza perché, non sa nemmeno lui spiegare come, risulta che sia ricco. Ricco come può essere un ragazzotto di venticinque che in una mano tiene il suo telefono cellulare a conchiglia e, nell’altra, stringe un quaderno e una penna: “Voglio imparare l’italiano, per questo mi serve il quaderno“. Stanotte andrà così, domani si cercherà di risolvere la situazione. Zakir, Hussain e Kashif aspettano. Sono gli ultimi arrivati, chiedono di essere fotografati, sono felici di essere in Italia nonostante l’accoglienza non sia delle migliori. Sono tutti e tre pakistani, ma c’è chi parla Urdu, chi parla Pashtun, in qualche modo si capiscono tra di loro, ma è la sigaretta condivisa e il silenzio sul viaggio che li ha portati qui a unirli.

L’intervento della polizia di mercoledì sera ha creato non poco scompiglio. Giusy, una delle volontarie, scuote la testa: “Non ne sapevamo nulla, eppure siamo noi qua ogni giorno in strada a prenderci carico, in qualche modo, della situazione“. Ma come si è arrivati a questa situazione quasi endemica per cui, per mesi, la prima accoglienza ai migranti avviene in questo modo? “Si tratta di una scelta politica, o meglio della mancanza di una forte imposizione politica – spiega ancora Susanna – mentre il Comune di Udine si è attrezzato per accogliere il numero di richiedenti asilo e profughi previsto, alcuni Comuni della provincia ancora si oppongono. Il risultato è che un numero di ragazzi non eccessivo rispetto alla popolazione locale finisce in strada, visibile da tutti, costretto a stare in situazioni di degrado.

Il paradosso è, anche, questo: a fronte di un dibattito pubblico e politico alquanto polarizzato, ma vivo, le azioni concrete sembrano uno specchietto per le allodole. Tutti passano per la stazione, ciascuno con la sua soluzione, ciascuno relazionandosi a suo modo con i ragazzi, ciascuno con un compito da portare a termine prima di tornare a casa, eppure nulla o quasi sembra cambiare.

Mercoledì notte, nonostante tutto, almeno una decina di profughi ha ugualmente dormito in stazione. Si sono messi in fondo, quasi con la speranza di non dare nell’occhio nonostante le coperte colorate.

Shakir, avvolto in un plaid giallo evidenziatore, canta sottovoce una canzone tradizionale, accompagnamento naturale del momento del tè. Si guarda attorno, con gli occhi grandi, accenna un sorriso. Gul, che in Italia è arrivato circa nove mesi fa e oggi collabora come interprete, spiega che molti viaggiano leggeri, giusto i vestiti che hanno addosso e poco di più, ma il bagaglio più importante è proprio quell’insieme di usi, costumi e tradizioni che ruotano intorno alla loro terra d’origine; sono uomini fieri, ma con un forte senso di ospitalità che, spesso, anche qui in Italia si esprime nel condividere un té chai, ovunque questo sia possibile, compreso il freddo sottopassaggio di una stazione in una fredda sera di primavera.

Troppo spesso, da quando si è cominciato a percepire la “crisi” dei rifugiati, la strada è diventata quello spazio pubblico e condiviso dove incontrarsi. La stessa strada dove sguardi torvi, bassi, sfuggenti si susseguono. Le stazioni, ancor di più, sono naturali luoghi di incontro e scontro di persone, traiettorie e culture. Udine non è un’eccezione, è soltanto un esempio di quel che potrebbe accadere anche altrove.

Milano Centrale è stata per due anni il luogo di transito privilegiato, ma non solo, delle migliaia di Siriani che hanno attraversato l’Italia e, oggi, è attivo un hub all’interno della stazione stessa; accanto a Roma Tiburtina è la Croce Rossa ad assistere i migranti in arrivo in una tendopoli. Crotone, Verona, Bolzano, l’inadeguatezza del sistema di accoglienza di fronte al flusso migratorio è sotto gli occhi di tutti.

È l’incertezza a caratterizzare la quotidianità, è l’abitudine a non sapere cosa accadrà da lì a poche ore a scandire il passare dei giorni, sono stratagemmi che non risolvono il problema e pongono, ogni giorno, una nuova toppa: questa è la realtà quotidiana di chi viene trasportato di qua e di là, in fuga dalla guerra e dalla povertà, e si trova, ancora una volta, sulla strada senza sapere cosa ne sarà di lui. In fondo, sospirano le volontarie, “Quando scendi in strada, non puoi mai sapere davvero come andrà a finire.

Da vociglobali


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