I dolci inganni del Rischiatutto

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Fabio Fazio non copia, è lui stesso Mike Bongiorno. In fondo, “Rischiatutto” è la realizzazione del sogno privato-pubblico del conduttore più simile al modello di televisione dell’età dell’oro. E’ un sogno assai realistico, perché dà sembianze di spettacolo al desiderio diffuso di guardarsi nel rassicurante specchio della memoria addomesticata.

Con una ormai consumatissima abilità Fazio ripercorre la laica via crucis del modello generalista: dal varietà, a Sanremo, al calcio, al talk. Ecco, ora, il quiz: format privilegiato, incontrastato principe di quel modello mediale. Perfetto nell’indurre una seduzione intelligente e colta. Non per caso i canali tradizionali sono infarciti di programmi immaginati per un pubblico di massa, trasversale nelle fasce di età e di istruzione: Rischiatutto è quasi il programma della Nazione. Per intendersi, la platea del Commissario Montalbano, commensurabile nel raffronto, data l’omologa collocazione nella rete uno della Rai e la lunga preparazione della cerimonia mediatica.

Ascolti e share (oltre il 30%) da mondiali di calcio entrambi, ma con un’oscillazione verso l’alto la fiction e un po’ sotto la linea mediana il quiz. Del resto, le serie televisive stanno diventando la materia pregiata della post-televisione, quella dell’offerta on demand e del palinsesto fai da te, all’incrocio tra lo schermo e la rete. Giochi e indovinelli fanno parte della fase in via di esaurimento o, meglio, dell’era del cultural divide, nella quale ai settori sociali meno abbienti si garantisce il minimo sindacale con l’alibi del sapere. Insomma, un’operazione di retroguardia, di buona fattura (a parte il ritmo lento e una certa bulimia nell’ibridare quiz effettivo e quiz dei “divi”), ma di compiaciuta macchina del tempo. E Fazio è maestro collaudato nel suscitare i sorrisi e le risate piene di malinconia.

Tuttavia, guai a sottovalutare o a snobbare –cadendo nel tranello di reinterpretare nel nostro immaginario il successo dei primi anni settanta con Mike e Sabina Ciuffini, o con la gradevolissima signora Longari intravista poi persino in assemblee sinistrorse– trasmissioni come questa. In verità, dietro la leggerezza tanto vacua quanto brillante si staglia un capitolo importante dell’ideologia (sì, ideologia) contemporanea. Edificata sradicando via via le fondamenta della vicenda recente con i suoi conflitti, per sostituirla con l’iniezione di una simil-storia, in cui la sequenza appare bella, dolce, evocativa di un buonismo sentimentale. Che, come le ideologie, ci condanna al dolce inganno dei ricordi. Nostalgia canaglia, dice una famosa hit del pop nostrano. Naturalmente, va dato atto alla struttura che ha ideato e messo insieme pezzo per pezzo (lunghe e articolate selezioni, autorevoli commissioni selezionatrici) il programma di aver confezionato un marchingegno sofisticato. Poteva andare peggio. Però, non ci si limiti alla “critica televisiva”. In controluce c’è dell’altro. E’ il “neo-centrismo” culturale, così somigliante al corso della cosa pubblica da farci capire quanto è proprio la comunicazione a dirigere le danze, agendo negli strati profondi dei tele-corpi.
Umberto Eco pubblicò in “Diario minimo” la “Fenomenologia di Mike Bongiorno”, che ha aiutato a decifrare la società dello spettacolo e lo spettacolo del consumo: l’autobiografia del paese. E ci metteva in guardia dal perenne conformismo. Vecchio e nuovo.


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