Più che i pugni, in Europa, servirebbe la politica

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Una riappacificazione? Un incontro chiarificatore? Una svolta storica per l’Europa? Nulla di tutto ciò, tranquilli: l’incontro a Berlino fra Matteo Renzi e Angela Merkel si è concluso con un garbato nulla di fatto, frutto delle capacità diplomatiche della Cancelliera e dell’astuzia tutta democristiana che la sta inducendo a praticare a piene mani la strategia dell’attendismo.

La Merkel, infatti, in questo momento è meno forte rispetto al passato, potremmo quasi dire che ha imboccato il viale del tramonto, anche se ancora non esistono concrete alternative alla sua leadership: né all’interno della CDU-CSU né, tanto meno, fra gli avversari della fu socialdemocrazia tedesca. E questo per due motivi, entrambi facilmente comprensibili: da una parte, la Merkel è entrata nel suo undicesimo anno di governo, un lasso di tempo ragguardevole (anche se non inedito a quelle latitudini, se si pensa che Helmut Kohl fu cancelliere dall’82 al ’98) che espone qualunque leadership a un discreto grado di usura; dall’altra, la coraggiosa scelta da statista di aprire le porte della Germania ai siriani in fuga dalla guerra e dalla miseria, sull’onda della tragedia del piccolo Aylan ai primi di settembre, ha rafforzato il populismo delle forze anti-europeiste che cominciano a prendere piede anche all’interno della locomotiva d’Europa, riverberando le proprie pulsioni xenofobe pure sull’anima più conservatrice e retrograda del partito della Cancelliera e dei suoi ingombranti alleati bavaresi.

Per questo, a differenza di ciò si aspettava qualche osservatore, oggi la donna più potente d’Europa ha evitato con cura di entrare nelle pieghe della polemica fra Renzi e il presidente della Commissione Europea Juncker (del quale la Merkel è stata, di fatto, la grande elettrice), facendo buon viso a cattivo gioco di fronte ai non troppo celati attacchi del presidente del Consiglio italiano nei confronti della linea seguita a Bruxelles e preferendo ricucire lo strappo del dicembre scorso, in quanto, nel contesto attuale, Roma è considerata comunque un alleato imprescindibile.
I veri problemi del Rottamatore, pertanto, non verranno da Berlino: la Merkel non lo ama ma non lo vede ancora alla stregua di un Berlusconi in miniatura, ne apprezza alcune riforme ed è consapevole del fatto che nessun altro in Italia sarebbe in grado di portare avanti i dogmi su cui si fonda la guida tedesca del Vecchio Continente meglio dell’ex sindaco di Firenze. È una donna pragmatica, conosce le virtù della politica e lavora per sé, dunque ancora per un po’ lo sorreggerà.

I veri problemi, anche in Europa, per Renzi derivano soprattutto da se stesso, dai suoi toni, dal suo modo di comportarsi, dal suo atteggiamento spesso sopra le righe, dai suoi eccessi verbali e dalle sue esagerazioni, dall’incapacità diplomatica che ostenta con populistica voluttà e dal suo goffo tentativo di far campagna elettorale sulla pelle delle istituzioni europee, bruciando quel minimo di credibilità acquisita sinora e attirandosi l’ostilità, nient’affatto nascosta, di quegli oscuri funzionari che avranno pure mille limiti e difetti ma dai quali dipende, comunque, il futuro di un Paese la cui Borsa oscilla paurosamente, il cui debito pubblico è inquietante e la cui stabilità economica, politica ed industriale offre da anni pericolosi segnali di instabilità, il tutto sommato ad un tasso di crescita e di sviluppo anemico e non strutturale.

E qui vengono fuori tutti i limiti dell’uomo di Rignano: persona scaltra ma per nulla dotata di quelle doti da statista che servirebbero in una fase così delicata, con la conseguenza che persino una figura a lui un tempo molto vicina come Federica Mogherini, ora che è diventata lady PESC e ha dimostrato di sapersi muovere discretamente nel contesto internazionale, ha iniziato a prendere le distanze dal suo mentore.

Fare il bullo come se si fosse in una Direzione del PD e si avesse davanti la minoranza dem con numeri risibili, in Europa non solo non funziona ma è anche controproducente, come controproducente si è rivelata la strategia seguita durante il semestre europeo a guida italiana: sei mesi dei quali non si è accorto praticamente nessuno, privi di sussulti, il cui risultato più sbandierato, ossia l’allentamento delle assurde posizioni rigoriste difese dalla Commissione, è oggi messo in discussione dallo stesso Renzi tramite i suoi continui attacchi all’indirizzo di Juncker.
Non solo: nominare come rappresentante permanente dell’Italia presso l’Unione Europea un politico, Calenda, al posto di un ambasciatore di prestigio come Sannino è un altro colpo alla credibilità del nostro paese che, agli occhi dei commentatori internazionali, sembra tornato ai tragici tempi di Berlusconi, quando venivamo accolti dagli sberleffi di Merkozy e il nostro spread raggiungeva livelli da bancarotta imminente.

Se oggi possiamo respirare un po’, se lo spread non costituisce più un incubo nonostante la tempesta globale in atto sui mercati finanziari, se il nostro Paese, pur rimanendo debolissimo e con fondamentali duramente incrinati dalla crisi, si regge a galla, il merito è unicamente di una congiuntura mondiale favorevole (a cominciare dal basso costo del petrolio) e dello straordinario lavoro compiuto in questi anni da Draghi, i cui interventi, su tutti il Quantitative easing, hanno tenuto a bada gli “spiriti animali” di un capitalismo sregolato e ormai del tutto fuori controllo, il cui obiettivo principale era, e forse è tuttora, il crollo dell’euro e il disfacimento dell’eurozona e del concetto stesso di Unione Europea.

Tuttavia non basta: non basta se la meritoria azione del governatore della BCE non è seguita da una positiva azione dei singoli governi, a cominciare da quelli dei paesi fondatori, a proposito dei quali si è tornati a parlare addirittura di un’Europa a due velocità, con un nucleo costitutivo del quale anche noi dovremmo far parte.

Non basta e non basterà se l’Italia rimarrà il paese che a luglio contribuisce a strangolare la povera Grecia e a dicembre tuona contro le ristrettezze e gli eccessi rigoristi della stessa Commissione europea che aveva appoggiato senza colpo ferire, e anzi mostrandosi ferocemente ostile nei confronti di un esecutivo in lotta per la dignità del suo popolo, appena cinque mesi prima.
Non basta e non basterà fino a quando un governo come il nostro, che pure avrebbe le dimensioni necessarie per condurre una battaglia in tal senso, non farà il possibile e l’impossibile al fine di vedere accantonati i cardini di un liberismo barbaro e nemico dell’Europa che sta lentamente distruggendo il progetto ideato dai padri del dopoguerra.

Non basta e non basterà fino a quando non proporremo un serio piano industriale nazionale e, successivamente, un piano industriale europeo; fino a quando non faremo nostro il discorso di Mariana Mazzucato sullo “Stato imprenditore”; fino a quando non ci batteremo contro le intollerabili diseguaglianze denunciate da Atkinson e Piketty nei rispettivi saggi; fino a quando non ci faremo promotori della costruzione di un IRI europeo, unica possibilità concreta di salvaguardare il nostro tessuto industriale e di contrastare la desertificazione verificatasi negli ultimi anni; fino a quando, in sostanza, non la smetteremo di battere inutilmente i pugni e di alzare, ancor più inutilmente, la voce e non riscopriremo le virtù di quella sana e positiva politica europeista che ha caratterizzato le stagioni migliori della nostra storia.

Peccato che un De Gasperi, un Ciampi, un Prodi e un Andreatta non siano alle viste.


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