La storia di un Eremita

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L’Eremita nella tradizione cristiana è la prima forma del monachesimo e precede la vita monastica del cenobio. Gli Eremiti praticano una vita solitaria e si differenziano dai cenobiti, che hanno una vita comunitaria. San Benedetto da Norcia elenca gli Eremiti come uno dei quattro tipi di monachesimo. Gli Eremiti trascorrono una vita interamente dedicata alla lode del Signore e all’amore attraverso la penitenza, la preghiera al servizio dell’umanità.

Nel concetto laico nei Tarocchi l’Eremita è rappresentato dal il numero nove e annuncia sia la fine che il principio. Ha una  lanterna simbolo della conoscenza ,  fonte di saggezza, da trasmettere ai discepoli. L’Eremita ha un lungo bastone  simbolo del cammino che si è scelto quello del Pellegrino. In pratica questa Carta dei Tarocchi rappresenta l’Arcano  con un significato positivo, ovvero il solido, il concreto, il tempo, il giudice supremo di tutte le cose, il rispetto per il passato e per la tradizione. In conclusione un vecchio saggio con la barba bianca che cammina lentamente e rappresenta l’ascesi, la conoscenza e il sapere: un saggio uno studioso, il mistico che ha invocato la Divinità nel suo cuore.

Mastro Titta nel suo romanzo popolare ci racconta di un Eremita Fra Pasquale, che è stato ucciso,  da un tale Felice Rovina che lo aveva strozzato.

Questo racconto è interessante mostra un aspetto della vita popolare che si svolgeva a Roma e nel suo territorio nell’anno 1802, con un eremita interprete del suo tempo.

Racconta Mastro Titta.

 

Fra Pasquale apparteneva alla piccola nobiltà di provincia; aveva ingegno fecondo e bel personale, appetiti smodati e un coraggio a tutta prova. Se la sua famiglia fosse stata più ricca e avesse potuto fornirgli denaro, quanto esigevano le sue dissipazioni forse avrebbe avuto miglior ventura. Messo invece dalle sue passioni alle prese col bisogno, scartò dalla via retta e precipitò giù per la china del vizio, che mena al delitto. E se non lo avesse sorretto l’acutissimo ingegno e una furberia di primo ordine, sarebbe finito nelle mie mani (del Boja de Roma n.d.r.), invece del suo assassino.
Dopo una sequela di bricconerie e di violenze, fra Pasquale, avendo ucciso un rivale in amore, di gran casato, dovette buttarsi alla macchia e dedicarsi alla vita del bandito. Ce n’erano di molti a quell’epoca e accadeva spesso che si mettevano in lotta fra loro, con gran compiacimento del governo, al quale non pareva vero che i masnadieri si ammazzassero da sé, risparmiandogli la spesa e l’incomodo di farlo esso.

Fra Pasquale batté la campagna per molti anni, sfuggendo a tutte le trame, messe su per pigliarlo. I birri stessi lo aiutavano un po’ per paura, un po’ per simpatia, un po’ ancora per avidità di lucro, imperocché, soleva distribuire anche a loro una parte dei suoi bottini.

Era così giunto a quell’età, in cui anco gli uomini più robusti, incominciano a sentire il bisogno del riposo, e andava mulinando nella testa come avrebbe potuto procurarselo, quando seppe che era stata messa un enorme taglia sulla testa di un altro bandito, contro il quale si erano spiegate tutte le maggiori energie, e le più grandi sottigliezze per agguantarlo.

La taglia — ripeto, enorme a quei tempi — era di tremila scudi(circa 70.000 euro). Ma nessuno aveva abboccato: c’erano troppi pericoli da affrontare per conseguirla.

Fra Pasquale — continuiamo a chiamarlo così, benché tal nome non avesse ancora assunto, — ebbe un’idea luminosa e tosto s’accinse a tradurla in atto.

Una sera, mentre Monsignor Fiscale aveva appena finito di cenare e stava facendo il suo chilo, con un fiasco di vino accanto e la tavola tuttora imbandita, gli fu annunziata la venuta di uno sconosciuto, che chiedeva di parlargli.

Monsignore, che era di buon umore e sapeva d’altronde di essere ben custodito, ordinò che lo facessero passare.

Entrò un uomo sulla cinquantina, coi capelli spioventi sulle spalle, e la lunga barba, brizzolati e questa e quelli, vestito alla cacciatora, con una certa eleganza.

— Chi siete? — gli domandò il Fiscale, ostentando il piglio brusco, d’un uomo disturbato ed annoiato.

— Non vi servirebbe a nulla il mio nome per il momento, s’anco lo declinassi.

— Che volete?

— Desidererei da V. S. reverendissima degli schiarimenti.

— Sopra quale argomento?

— Sulla taglia imposta per la presa del bandito Lucarini.

— Vi sentireste in grado di guadagnarla?
— Perché no?
— Sapete che sono ormai tre mesi che si è pubblicata e nessuno si è lasciato sedurre dalla medesima? — Lo so.

  • E voi vorreste tentare?
— Vorrei riuscire.


Monsignor Fiscale si tolse gli occhiali e ne pulì con un lembo del tovagliolo le lenti, quindi se li ripose e guardò fissamente il nuovo venuto. Questi sostenne lo sguardo e non si mosse.

Il giudizio del Fiscale parve favorevole, perché la sua fronte corrugata si spianò e sclamò:

— Benissimo: mi sembrate uomo più che di parole, di fatti.

— Purtroppo!

— Purtroppo? — ripeté il Fiscale aggrottando le ciglia, — Perché?

— Perché i fatti mettono spesso gli uomini in brutti impicci.

— Ho capito. Avete qualche conto da rendere alla giustizia.

— Può essere.

— Vi avverto che non mi piacciono le locuzioni ambigue — Monsignore pronunziò queste parole in tono severo, e quasi duro, guardandosi attorno come cercasse qualche cosa o qualcuno. Fra Pasquale non se ne diede per inteso e continuò:

— Chi vi portasse la testa di Lucarini…

— Avrebbe la taglia promessa in tanti scudi di zecca, fiammanti uno sopra l’altro.

— E se avesse de’ conti da rendere alla giustizia, come monsignore diceva poc’anzi?

— Non gli verrebbero domandati in quel momento. — E se volesse l’assicurazione dell’impunità?
— Bisognerebbe esaminare prima la cosa.

— Se si trattasse d’un traviato desideroso di ritornare sulla buona via e di emendare i suoi errori, rendendo dei servigi al governo?

— Potrebbe ottenerla per tacito consentimento.
— Vale a dire?
— Mutando nome e non offrendo colla sua condotta nuove cagioni di perturbazione, si ignorerebbe chi fosse realmente e si dimenticherebbero i suoi antecedenti. Suppongo però che non siate venuto da me per farmi subire un interrogatorio. Non ho l’abitudine di lasciarmi invertire le parti. Come vi chiamate?

— Francesco Perilli.
— Dei conti di Casana?
— Per l’appunto.
— Una testa val l’altra. Vi garantisco che la vostra rimarrà al suo posto, se mi portate quella del Lucarini… Fra quanto?

— Fra otto giorni.

— E sia. Ma badate: tentando d’ingannarmi voi non uscireste di qui che per andar alle carceri, e dalle carceri che per andare alla forca.

— Alla mannaia! Monsignore, alla mannaia.

— È vero; siete di stirpe nobile; me ne dimenticavo. Ma questa è una questione di forma, che non muta la sostanza. Liberamente siete venuto, e liberamente ve ne andate. Siate però certo che se non tornate, saprò cogliervi.

Perilli si inchinò ed uscì.


Otto giorni dopo all’ora stessa, il medesimo personaggio tornava a presentarsi al Palazzo del Fiscale e venne da Monsignore ricevuto immediatamente.

Perilli vestiva ancora da cacciatore, e portava un canestro sotto il braccio.

— Mi recate la cacciagione? — chiese giocondamente il Fiscale, allontanando un po’ la sedia dalla tavola, tuttora imbandita, e coi resti del dessert.

— Sì, Monsignore. E precisamente il capo… di selvaggina che mi avete domandato.

— Vediamo, vediamo.

Il cacciatore, con rapidità fulminea, tolto dalla mensa un gran piatto d’argento cesellato, trasse dal canestro la testa del Lucarini e depostala sul piatto la presentò al Fiscale, come fu presentata ad  Erodiade la testa del Battista.

Monsignore volle mostrarsi forte, ma un lieve pallore si diffuse sul suo volto, denunziando la emozione disgustosa che gli suscitava tal vista in quel momento.

— Riponetela, mormorò poi, volgendo da altra parte lo sguardo.

E Perilli acciuffatala per i capelli, la ripose nel canestro, quindi la coprì con una salvietta tolta dalla tavola, nella quale si era pulita la mano lorda di sangue raggrumato.

— Monsignore, disse tranquillamente, ho mantenuto il mio impegno, posso contare sul vostro?

  • Ne avete la mia parola. Il mio maestro di casa vi passerà i tremila scudi. Che contate di fare?
— Indosserò l’abito del mio protettore S. Francesco, se me ne dà licenza Monsignore.
— Volete entrare in un chiostro?
— No, non me ne sento degno.
Il Fiscale si accorse dell’ironia che era nel fondo, di queste parole e sorrise.
  • Perilli continuò:
— Mi ritirerò in campagna, in un piccolo eremo, che mi servì già d’asilo, in una valletta amena e silenziosa, come quella ove sorgeva la Casa del Sonno, cantata da Messer Ludovico.

— Mi darete contezza di voi?
— Non mancherò, Monsignore.
— Ne avrete congrua ricompensa.
— Grazie.
Con profondo inchino il bandito si accomiatò dal Fiscale e recossi dal Maestro di Casa a riscuotere la taglia.

 

La capanna dell’Eremita.

Erano trascorsi pochi anni.

Perilli aveva scrupolosamente seguito il suo programma, per quanto concerne la metamorfosi. Mutato in frate francescano, s’era stabilito in una capanna, nel fondo di una piccola valle, addossata al versante di un colle, che aveva acquistata, con poche rubbie[1] di terreno intorno, da un pastore.

Meschinissimo era l’aspetto esteriore: curioso l’interno diviso in due scompartimenti. Il primo era una specie di laboratorio, con un fornello, il cui fumo usciva da un comignolo eretto sul tetto; e sul fornello, storte, lambicchi, fiale e fiaschi d’ogni genere. Nel secondo c’era un piccolo desco di legno, rozzamente lavorato e sovr’esso un boccale di terra per l’acqua; un sedile a tre piedi, sul quale posava un teschio umano e una lampada di bronzo a tre lucignoli; distesa per terra una stuoia di corteccie intrecciate, serviva per letto e un Cristo appeso alla parete, indicava il capo.

In fondo uno sportello chiudeva una specie d’armadio, scavato nel muro, ingombro di involti, nei quali erano le raccolte d’erbe medicinali, che l’eremita soleva fare, per distribuirle ai contadini che gliele venivano a chiedere.

Ma quell’armadio dissimulava una porta, che girava sui cardini, insieme alle tavole traversali, sulle quali stavano gli involti delle erbe, e dava accesso ad un terzo compartimento segreto, molto più ampio dei due antecedenti presi insieme, che si internava nella collina, e faceva capo ad una grotta naturale, chiusa da una porta, coperta da un alto specchio di Venezia, con larga cornice intagliata e dorata.

La grotta serviva all’eremita di deposito delle sue dovizie e per un lungo corridoio, scavato nel tufo calcareo, si giungeva ad un’altra uscita, difesa da una porta sprangata di ferro, che si apriva dall’interno ed era al di fuori mascherata da grandi massi, rivestiti di verde musco. Questa uscita metteva nel folto della macchia, che si estendeva su tutto il versante dell’aspra collina.

Il compartimento segreto della capanna era riccamente arredato e munito di tutti i conforti della vita: un ampio letto a colonne con cortinaggi di velluto e di trina, che lo chiudevano come un santuario; vasti armadi di legno dipinto e intarsiato, con fregi e dorature, una tavola rotonda col pedale di bronzo dorato e il piano di mosaico; sedie e divani coperti di velluto e di cuoio di Cordova impresso in oro, ne costituivano il mobilio sontuoso ed elegante ad un tempo, e chiarivano come fra Pasquale doveva aver passato i suoi primi anni nel lusso ed avervi affinato il suo gusto.

Era quello scompartimento il suo piccolo paradiso; un paradiso che non aveva delle Urì come quello di Maometto, ma al quale non mancava di quando in quando il sorriso della donna.

La fama dell’Eremita si era diffusa a parecchia distanza; dai paesi circonvicini non solo, ma ben anco da lontani, gli giungevano clienti in cerca di semplici e di composti. Fra Pasquale non vendeva soltanto le medicine che manipolava co’ suoi lambicchi, e le erbe salutari, colte fra i boschi e fra gli sterpi del torrentello spumeggiante, che bagnava la valletta, dove aveva stabilito il suo domicilio: componeva altresì dei filtri portentosi che avevano la proprietà di far amar le persone tra loro e di disinnamorarle, di rendere più vigorosi od inetti all’azione genetica, e, quel che è peggio, di togliere alle donne, ed alle fanciulle in ispecie, l’incomodo della maternità, dissolvendo embrioni e feti ed espellendoli anzi tempo dall’alvo, perché non giungessero a maturità. Volevano anche taluni che più d’una vedova dovesse a’ suoi farmaci le anticipate, agognate gramaglie. Ma forse erano voci maligne e nulla più. Certo è vero che aveva nome di stregone: più di una vecchierella, scorgendo da lungi il tetto della sua capanna, o il sottile pennacchio di fumo che ne usciva, si faceva il segno di santa croce. I preti incontrandolo mormoravano:” ite diabulis, ite ad inferi”. I birri di campagna, per converso, non sdegnavano di soffermarsi sulla soglia del suo laboratorio, di chiedergli un boccale d’acqua fresca, e di accettare magari un boccale di vino, nonché di attingere da lui informazioni, intorno alla gente che batteva la campagna. Informazioni, ch’egli era sollecito di fornir loro, studiando intanto di carpirne altre sul soggetto delle missioni ond’erano incaricati.

Avevano luogo fra loro dei dialoghi come questo:

— Fra Pasquale, s’è vista nessuna persona sospetta scorrazzare per questi dintorni?

— Non mi pare. Però un povero ammalato che venne da me per soccorso, mi disse d’’aver incontrato una comitiva di uomini, che tenevano i pistoni nascosti, sotto i ferraioli, i quali lo fermarono, gli fecero delle interrogazioni, poi lo lasciarono senza molestia. — Da quale parte provenivano?
— Da Collevecchio.
— Ed erano diretti?

— Piegarono a manca, costeggiando la macchia.
— Era di notte?
— Di mattina verso l’alba. E dovevano aver fatto

buon bottino, perché erano allegri e portavano delle bisaccie rigonfie. Il mio malato lo fermarono più per curiosità che per altro. Credo anzi gli regalassero qualche baiocco.

— Dovrebbero esser loro.
— Siete sulle traccia di qualche banda di grassatori? — È stata assalita una vettura padronale di viaggiatori, che portavano di molto valsente. Dovrebbe essere la masnada del famoso Caciotaro.

— Non vorrei essere ne’ suoi panni.
— Perché?
— Perché non tarderà a cadervi nelle mani.
— Speriamolo.
— Siete soli?
— Abbiamo combinato un appostamento, col bargello di Collevecchio e le sue guardie, proprio nella macchia, costeggiata dalla vostra comitiva. C’è a scommettere che è quella del Caciotaro.

— Buona fortuna!

I birri se ne andavano, lieti e felici delle notizie avute da fra Pasquale. E fra Pasquale, che era in rapporti d’affari col Caciotaro, chiudeva la sua capanna e per la grotta si recava nella macchia, dove trovava tosto un messo da inviargli, per porlo sull’avviso; onde non avesse a cadere nell’agguato tesogli dal bargello.

Al Caciotaro e ad altri capi di banditi d’alta levatura, fra Pasquale porgeva eziandio informazioni sui viandanti, i corrieri e i viaggiatori di gran conto, che passavano, o dovevano passare, nei luoghi ove era agevole il grassarli. E su questi percepiva un quinto del bottino.

D’altra parte però, se qualche disgraziato, si buttava da novellino nella macchia, o spinto dal bisogno, o per aver commesso qualche delitto, per il quale era ricercato dalla giustizia, fra Pasquale non ritardava a saperlo: estendeva quanto più poteva le sue indagini, e ne faceva giungere notizie al Fiscale di Roma, che così gli conservava la sua protezione e non mancava di rimunerarlo lautamente.

Così l’astuto eremita, faceva un doppio giuoco, ritraendone largo profitto ed assicurandosi l’impunità.

La sua clientela abituale era composta in gran parte di giovani sposi e di fanciulle innamorate ed a queste, specialmente se erano leggiadre, soleva imporre un tributo carnale. Le brine che l’età aveva deposte sul suo capo, non avevano spenta la sua foia, non avevano saziata la sua sete di femminei godimenti. Egli soleva attrarle con arte finissima nelle sue reti e una volta che vi erano incappate non gli sfuggivano di leggeri. Alcune cedevano riluttanti per tema di peggio; altre subivano la violenza, ma tacevano, un po’ per vergogna, un po’ per paura. Ed altre finalmente s’acconciavano con piacere, e queste erano ammesse alla sua intimità, nel terzo compartimento, passando pure qualche notte in orgie sfrenate, inebbriate dai vini generosi e dagli amplessi frenetici dell’eremita. E talora gli servivano eziandio da mezzane, inviandogli incaute giovinette, bisognose dei suoi molteplici ministeri, le quali, prima d’essere esaudite, dovevano subire l’oltraggio delle sue carezze e de’ suoi baci.

 

 

 L’attentato e la morte.

Una bella mattina di maggio, fra Pasquale, stando nel suo laboratorio, vide scendere per la china che conduceva nella piccola valle, una formosa fanciulla trilustre, precocemente sviluppata. Il turgido seno le torreggiava sotto la bianca camiciuola, la vita agile e sottile, stretta dal busto sovrapposto, faceva spiccare maggiormente le sue anche poderose, ondeggianti nell’incedere; il breve gonnellino lasciava scorgere il profilo di una gamba nervosa e ben modellata.

Fra Pasquale ne fu colpito; i suoi occhi mandavano fiamme; il sangue gli martellava le tempie; le sue labbra fremevano di desideri voluttuosi.

— Ov’è diretta, quella gallinella? — chiese a se stesso osservandola — Venisse da me?
E per non darle soggezione non si mosse, e cessò dal guardarla fissamente, come dapprima aveva fatto. 
La  fanciulla continuava a scendere pian piano pel sentiero serpeggiante; ma ad ogni tratto si fermava, ora volgendo gli occhi in alto dalla parte donde era calata, ora al basso della valletta, ove era diretta. Si vedeva dalle sue esitanze che aveva ancora degli scrupoli a superare.
Forse il suo angelo custode a destra le mormorava all’orecchio: «Torna indietro.» Allora rimaneva per un istante sul pendio col pie’ sospeso. Ma il diavolo da mancina era pronto ad incoraggiarla e le diceva: «Che temi, sciocca? Vuoi o non vuoi esser certa che Felicino ti ama e che ti sposerà? Tira innanzi». E allora la fanciulla moveva parecchi passi affrettati giù per la china.

Ma ad un certo punto parve che il suo buon angelo avesse ripreso il sopravvento. Era ormai giunta a tre quarti della discesa: vedeva distintamente l’interno della capanna e fra Pasquale, che fingendosi intento alle faccende del suo laboratorio, non tralasciava di sorvegliarla. D’un tratto si voltò e riprese a risalire per la stradicciuola con gran furia. Evidentemente non voleva lasciar tempo al suo cattivo consigliere di sospingerla alla meta peccaminosa.

Disgraziatamente pose un piede in fallo, incespicò in un sasso sporgente ed acuminato che la ferì alla clavicola e cadde rotoloni per buon tratto di strada, finché le sue vesti impigliatesi ne’ pruni la sostennero.
Fra Pasquale accorse tosto in suo aiuto.
Quando le fu vicino s’accorse che era svenuta e si fermò ad ammirare le stupende forme, dalle carni rosee e vellutate, che rimanevano scoperte, essendosene il guarnellino rimboccato, per effetto delle spine che lo trattenevano.

Invaso dal furore erotico, il lubrico eremita, stava per approfittare brutalmente di quella innocente creatura, nella stessa posizione in cui si trovava. Ma un barlume di ragione ne lo trattenne.

Staccò pian piano le vesti della fanciulla dai pruni, quindi recatasela sulle braccia, la trasportò nella capanna, e la depose sullo splendido letto a baldacchino del compartimento segreto.

La giovinetta era in preda ad un deliquio, cagionatole dallo spavento della caduta e dal dolore acuto prodottole dalla ferita, che aveva fatto sangue.

Fra Pasquale le tolse innanzitutto gli stivaletti e le calze, le lavò le ferite coll’acqua di fonte, le applicò dell’arnica fresca, che andò a cogliere a pochi passi dalla capanna, ove la coltivava, trapiantata.

Quindi le levò il candido pannolino che le copriva il capo: la ricca capigliatura, sciolta così da ogni ceppo le cadde lungo le spalle incorniciandole il bellissimo volto ovale, pallido, ma pur sempre fiorente di giovinezza.

La fanciulla non si svegliava: fra Pasquale prima di spruzzarle il volto, o di darle ad odorare dei sali, che l’avrebbero richiamata in sensi, volle svestirla completamente: le slacciò il busto, con ansia febbrile, e le strappò i bottoni della bianca camiciuola la quale cadde, offrendo alla vista del libertino eremita i tesori d’un bel seno virginale. Liberata così dall’oppressione, che il busto le cagionava, la respirazione della giovinetta diventò regolare e poco a poco le sue labbruzze  ripresero il bel colore corallino e le gote le si rifecero vermiglie.

Fra Pasquale la contemplava estatico.

Nulla di più leggiadro si era mai offerto a’ suoi avidi sguardi.

Egli tratteneva il respiro, per tema di destarla, e mentre le sue pupille rutilanti la dardeggiavano, colle nari dilatate assorbiva le fragranze soavi, emanate da quel corpo di Psiche.

La fanciulla sollevò lentamente, dopo breve istante le lunghe ciglia, quindi le palpebre, de’ suoi grand’occhi morati, e così stette per un momento immobile e silenziosa. Non aveva per anco ricuperato il pieno esercizio delle facoltà mentali:

 il deliquio le incombeva ancora sul cervello.

Ma fu un affare di pochi secondi.

D’un tratto gettò un acutissimo grido dalla bocca socchiusa e si alzò a sedere sul letto, incrociando le braccia sul seno per sottrarlo pudicamente agli sguardi dell’eremita, che la bruciavano.

  • Dove sono, mio Dio, dove sono? — domandò piangendo.

— Non temere, fanciulla, le rispose fra Pasquale, sei in casa tua: qui sei padrona e regina.

— No, no. Lasciatemi — gridò la giovinetta invasa dallo sgomento, e tentò di balzare dal letto..

Ma il frate la trattenne avvincendola solidamente fra le sue braccia.

Allora incominciò una lotta formidabile, fra la fragile creatura che difendeva il suo pudore, con energia disperata, e l’osceno eremita, che dominato dalla passione bestiale, non aveva più nulla d’umano, neppure il volto velloso e reso adusto dal sole.

Vinse il pudore.

Discinta, coi capelli sciolti sul capo e sul petto, col viso madido di sudore e di lagrime, la giovinetta, riuscita a svincolarsi, s’era messa a ginocchioni ed abbracciava le gambe dell’eremita, supplicando:

— Lasciatemi, padre, lasciatemi, o ne morrò.

E veramente il suo parossismo era giunto a tale, che faceva temere, non foss’altro, per la sua ragione.

Fra Pasquale comprese, che quella fanciulla ridotta in così disperate condizioni d’animo, non le avrebbe procurato alcun godimento, e, siccome non intendeva di rinunciarvi, mutò tattica.

Si finse dolente dell’accaduto, pentito del suo eccesso e ne chiese scusa alla giovinetta colle più dolci, più insinuanti, più umili parole. Era stato un delirio momentaneo. Aveva voluto farla rinvenire e guarirla. La vista di tanta bellezza l’aveva reso dissennato. Se non otteneva il suo perdono sarebbe morto dannato. Tutto quel tanto di vita che gli rimaneva, non sarebbe bastato, pur infliggendosi patimenti d’ogni genere, ad espiare.

La fanciulla rialzata, ricoperta co’ suoi vestiti, man mano si rinfrancò e, ingenua com’era, credette alla mendace parola dell’astuto eremita, il quale spinse l’ipocrisia fino a farla inginocchiare al suo fianco sulla stuoia, dell’altro compartimento, innanzi al crocifisso e a dichiarare che gli perdonava di cuore il suo trasporto.

Ricuperata la fiducia, la fanciulla non esitò a confessare il motivo che l’aveva guidata colà. Aveva un amante che la doveva sposare. Era partito da parecchio e ancora non le aveva dato nuova di lui. Desiderava di sapere che cosa era accaduto; se il suo Felicino le volesse sempre bene, se sarebbe tornato, se l’avrebbe sposata per davvero. Le avevano detto che quivi si trovava un eremita, un sant’uomo che avrebbe potuto farle conoscere tutto ciò, ed aiutarla, pure, a conseguire ciò che ardentemente bramava. Perciò era venuta.

Ma mentre scendeva dalla china una voce le diceva di non farlo: aveva voluto tornare sopra i suoi passi, era caduta e da quel momento non sapeva più nulla.

Fra Pasquale la confortò. Finse di consultare certi vecchi libri che teneva nel laboratorio; poi trasse una boccia, la riempì d’acqua e lasciandovi cadere goccia a goccia da una fialetta un liquore verdastro che formava delle spire opaline e si scioglieva lentamente, le palesò ciò che diceva aver tratto da’ suoi esperimenti. Il suo amante l’avrebbe sposata, l’amava ancora, ma un’altra donna voleva rapirle il suo affetto: era necessario neutralizzare gli sforzi di quella donna.

— Mio Dio, come fare? chiedeva la povera creatura, torcendosi le mani, addolorata e piangente.

— Rasserenati e confortati, bimba mia. Io ti darò un filtro, bevendo il quale, il tuo amante prenderà in orrore la tua rivale.

— Costerà di molto? — domandò l’ingenua giovinetta, portandosi le mani alle orecchie, per togliersi gli anelloni d’oro che le adornavano.

— Costa di molto sicuramente — rispose l’eremita; ma io te l’offro, senza spesa, in espiazione del mio fallo. E tratta una boccetta, che teneva riposta, ne bevve una metà e ne porse il resto alla fanciulla che, così rassicurata, la tracannò d’un fiato; era un sonnifero potente, misto ad un afrodisiaco non meno gagliardo. Poi la congedò, conducendola fin sul limitare della capanna. La fanciulla attraversò la valletta, lesta come una gazzella, e s’inerpicò sul sentiero fatale, d’ond’era caduta.

Intanto Fra Pasquale rientrato nel laboratorio s’affrettava a prendere per antidoto del sonnifero alcune cucchiaiate di caffeina. Quanto all’afrodisiaco, pensò che gli avrebbe giovato anzicché nociuto. Quindi si avviò dietro alla giovinetta.

La trovò adagiata alla sommità della discesa, sopra un tappeto di musco, e presala sulle braccia un’altra volta, senza che desse un segno di vita, la riportò sul letto, dove aveva tentato poco prima di violentarla.
La fanciulla non uscì dalla capanna che all’indomani mattina. Era irriconoscibile. Pareva disfatta. Una rosa divelta dallo stelo dall’imperversare della bufera, e calpestata, avrebbe solo potuto dar un’idea di lei.


Era trascorso un mese circa dal misfatto compiuto da Fra Pasquale, quando una mattina capitò alla capanna un giovanotto sui venticinque, vestito alla campagnuola e mostrando uno scudo, chiese all’eremita una medicina per guarire sua madre, da una forte colica che l’aveva presa.
Fra Pasquale pose a bollire alcune fronde secche, tolte dall’erborario, in una ampolla di vetro. Ma, mentre soffiava sulle braci per ravvivare il fuoco, si sentì afferrato per il collo e rovesciato al suolo.

Non ebbe campo di porsi sulle difese, perché sempre serrandolo con una mano alla gola, il giovanotto, gli saltò sul petto con un balzo da gatto selvatico, e premendoglielo colle ginocchia, per tenerlo fermo, lo strozzò.

Compiuto l’assassinio, il giovanotto andò a consegnarsi al bargello di Collevecchio. Confessò il suo delitto. Eretto il processo fu condannato e, come dissi, il 7 luglio 1802 io l’impiccai.

Era Felice Rovina, l’amante della fanciulla stuprata, la quale al suo ritorno l’aveva reso edotto dell’onta subita.

Informato della cosa, poco dopo l’arresto del Rovina, Monsignor Fiscale, mandò da Roma a perquisire la capanna di fra Pasquale e per tal modo giunse a cognizione di tutto, e colle dovizie trovatesi si pagò ad usura e della taglia pagata pel Perilli e delle susseguenti elargizioni.

[1] Rubbio = 4 quarte = 16 scorzi = 1,848438 di ha (ettaro)


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