Scuola, nel ddl approvato alla Camera non c’è un ancoraggio ai valori repubblicani

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Nel momento in cui è all’esame del Parlamento una riforma del sistema nazionale  di istruzione e formazione (AS 1934) che sta suscitando allarme e fortissime preoccupazioni fra gli insegnanti, gli studenti e le famiglie, desideriamo segnalarle l’esigenza che il Parlamento, ora più che mai affronti le questioni che sono sul tappeto assumendo come stella polare i principi costituzionali che devono informare l’attività di tutti gli organi della Repubblica.

La questione assume un rilevo straordinario perchè nel disegno di legge approvato dalla Camera, al di là di alcune formule scontate, non vi è un   diretto ancoraggio ai valori repubblicani, cioè ai principi costituzionali che devono ispirare il sistema educativo di istruzione statale, che fanno si, per dirla con Calamandrei, che la scuola sia un organo costituzionale, ovvero la principale istituzione attraverso la quale si realizza la missione della Repubblica, scolpita nell’art. 3, secondo comma della Costituzione, di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”.  Molti sono i punti di crisi attraverso i quali il disegno di legge non riesce ad adeguarsi ai principi costituzionali, quali, per es. quelli posti dall’art. 97 (i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon funzionamento e l’imparzaialità dell’amministrazione) ovvero il criterio rigoroso posto dall’art. 76 in materia di delega al governo della funzione legislativa. E tuttavia è proprio il cuore dei principi costituzionali, in materia di istruzione e formazione, scolpito dall’art. 33 (l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento) quello che viene maggiormente inciso dalla riforma. Nella funzione pubblica della scuola gioca un ruolo essenziale il principio laico della libertà di insegnamento, che costituisce il necessario presupposto della libertà dell’arte e della scienza.

Proprio questo principio marca la differenza fondamentale fra la scuola pubblica  – funzione della democrazia – e la scuola privata.  Questo principio non vige nella scuola privata come ci insegna la giurisprudenza costituzionale e di legittimità, perchè il diritto di istituire delle scuole private organizzate sulla base di uno specifico progetto educativo (la c.d. scuola per tendenza)  comporta l’obbligo per gli insegnanti di non contraddire quel progetto in virtù del quale la scuola è stata istituita. Insomma nella scuola privata la libertà di insegnamento del singolo insegnante deve cedere il passo alla libertà di insegnamento assicurata alle scuole confessionali in genere ed intesa anche come libertà dei genitori di scegliere per i propri figli un tipo di istruzione concretamente ispirato a determinati orientamenti ideologici. La scuola privata realizza i suoi fini attraverso la libertà di assunzione e di licenziamento discriminatorio degli insegnanti. A suo tempo fece scalpore, nel 1971, l’allontanamento dall’Università cattolica del prof. Franco Cordero, titolare della cattedra di diritto processuale penale. In tale occasione la Corte costituzionale, con la sentenza n. 195 del 1972, fissò il principio che nella scuola privata la libertà d’insegnamento del singolo docente deve cedere di fronte alla libertà d’indirizzo ideologico del privato.

Desta preoccupazione nella riforma l’attribuzione al dirigente scolastico del compito di conferire incarichi triennali, rinnovabili, ai docenti assegnati all’ambito territoriale di riferimento. In pratica al Dirigente scolastico viene attribuita la prerogativa di scegliere gli insegnanti che devono essere adibiti nel suo plesso scolastico e di mandarli via dopo tre anni. Tale funzione è palesemente assurda (si pensi per es. se al Presidente del Tribunale fosse attribuita la prerogativa di scegliersi i magistrati assegnati al suo ufficio) ed a parte le ricadute in termini di clientelismo diffuso (in contrasto con il principio del buon andamento e dell’imparzialità di cui all’art. 97), finisce per subordinare la scuola pubblica ad una logica di privatizzazione con immediati riflessi sul principio della libertà di insegnamento, di cui costituisce un corollario essenziale la non discriminazione.


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