Cento anni per raccontare una vita

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Cento anni: auguri, compagno Ingrao!
È molto difficile raccontare l’avventura umana e politica di un uomo così complesso, di un personaggio che ha attraversato da protagonista un intero secolo e ha avuto la fortuna, e in alcuni casi il dispiacere, di conoscerne da vicino quasi tutti i protagonisti; pertanto, abbiamo deciso di tralasciare il pur importantissimo lato politico di un soggetto che è stato deputato dal ’48 al ’92 e presidente della Camera fra il ’76 e il ’79, negli anni dei governi di unità nazionale, e di concentrarci sull’uomo Ingrao, sul poeta Ingrao, sull’Ingrao appassionato di cinema e di sport, sull’Ingrao ragazzo negli anni bui del fascismo e sull’Ingrao partigiano, sull’Ingrao della Resistenza, sull’Ingrao direttore dell’Unità mentre i carri armati sovietici entravano a Budapest e in lui si incrinavano quelle granitiche certezze proprie di un certo comunismo: un percorso interiore che lo avrebbe indotto, dieci anni dopo, a dichiarare apertamente, durante l’undicesimo congresso del PCI, di non sentirsi persuaso dalle posizioni assunte dal partito.

La storia di Pietro Ingrao, infatti, è quella di un meraviglioso eretico, di un uomo sempre avanti, sempre in tumulto, sempre alla ricerca, mai pago, nemmeno in tarda età, degli obiettivi raggiunti e delle conoscenze acquisite, sempre con lo sguardo rivolto al futuro; il che fa di lui un politico anomalo e un sognatore realizzato, tanto più in questa stagione di meschini figuranti che interpretano la politica non come un’arte nobile ma come un mezzo di sostentamento personale privo di alcun respiro ideologico.

Se penso a Ingrao, immagino la realtà pontina di inizio Novecento, prima delle bonifiche mussoliniane, e poi la Roma del primo fascismo e del celebre discorso del Duce in Parlamento, quando disse che avrebbe “potuto trasformare quest’Aula sorda e grigia in un bivacco di manipoli”: Ingrao aveva sette anni e, probabilmente, sia pur con la coscienza di un bambino, già allora maturò in sé quel senso di ingiustizia e di tormento per la sofferenza altrui che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita.

E penso al ragazzo che si innamora del cinema, negli anni dei “telefoni bianchi” e della censura spietata: il cinema come anelito di libertà, slancio dell’uomo, passione forte e culturalmente significativa, capace di raccontare la società ma anche di trasformarla, a dispetto del disimpegno predicato, praticato e crudelmente imposto in quegli anni dal regime. E poi l’Ingrao che parla a Milano il giorno dopo la caduta del fascismo, mentre ancora ci si illudeva che la guerra fosse finita e, invece, era solo l’inizio di una delle stagioni più travagliate ed eroiche della nostra storia.

E l’Ingrao dell’Unità, che assiste alla sconfitta del Fronte popolare del ’48 e racconta con dolore la morte di Stalin e con rabbia la velenosa Legge truffa democristiana del ’53, finché i fatti d’Ungheria non lo spingono a riflettere, a meditare, a interrogarsi sul delicato equilibrio fra la doverosa lealtà nei confronti del partito e la necessità di fare i conti, ogni giorno, con la propria coscienza di uomo. È lì che, pur appoggiando la decisione del PCI, si interroga su fin dove possa arrivare la propria disciplina di militante e dove debba, invece, cominciare la propria coscienza di cittadino, e saranno queste considerazioni a guidare la sua battaglia interna nel ’66, mentre il partito si arroccava su posizioni sbagliate e anacronistiche e lui chiedeva a gran voce di alzare lo sguardo oltre l’orizzonte conosciuto fino a quel momento, di abbracciare e far proprio il movimentismo delle giovani generazioni, di anticipare e trasformare in un progetto politico la fervida passione civile di una gioventù in rivolta che pochi anni dopo avrebbe costretto la politica, a cominciare proprio dal PCI, a cambiare e ripensarsi.

E ancora il gruppo de “il manifesto” e l’ennesimo scontro fra disciplina e coscienza, amore per la cultura, il pluralismo e la libertà d’informazione e rispetto per le decisioni di una comunità che, ancora una volta, di fronte alla Praga attraversata dai carri armati sovietici, stava commettendo un errore e perdendo un’occasione.

Ingrao aveva capito bene dove battesse il cuore dei giovani, quali fossero le loro passioni, i loro sogni e i loro sentimenti, dove si spingesse il loro desiderio di cambiamento e dove dovesse approdare il PCI per soddisfarlo, tanto che apprezzò senz’altro l’elezione a segretario di Enrico Berlinguer ma continuò a interrogarsi e a mietere più di un dubbio sulla fattibilità del compromesso storico che, infatti, naufragò a causa della barbara uccisione, nel ’78, di Aldo Moro. Fra tutti i dirigenti del PCI, Ingrao è stato senz’altro il più amato, forse persino più di Berlinguer, anche se quest’ultimo ha avuto la fortuna di essere segretario negli anni felici della “primavera comunista” (’72-’76), quando il partito volava al massimo storico, l’Unità aveva una tiratura oggi impensabile per un giornale di quel tipo e milioni di giovani si sentivano coinvolti in questo grande progetto di ammodernamento della società, finalmente proiettato in un’ottica, purtroppo mai realizzatasi, di governo.

Diciamo che Berlinguer era la politica del compromesso nobile, di ampio respiro e larghe vedute, mentre Ingrao era la purezza, dell’anima e delle idee: una limpidezza incontaminata che lo induceva a respingere, con garbo ma al tempo stesso con fermezza, l’ipotesi di una conversione al “governismo” nella quale, già allora, individuava il pericolo mortale del dissolvimento di quell’ideologia comunista ed egualitaria che aveva come propria ragion d’essere la proposizione di un modello di sviluppo radicalmente alternativo a quello seguito nel mondo occidentale.
Da qui, e questo è un altro aspetto poco considerato ma importantissimo della complessità di Ingrao, la sua attenzione verso ciò che si muoveva nelle punte più avanzate del mondo cattolico: dalle aperture di Giovanni XXIII all’esperienza conciliare di Paolo VI, con lo sguardo sempre rivolto all’utopia pacifista, al lavoro dei preti di strada, al comune sentire fra la visione laica e la ricchezza del cattolicesimo-democratico, da sempre attento ai drammi, ai bisogni e alle esigenze degli ultimi.

Per questo, possiamo dire senza remore che Ingrao non è stato solo un sognatore realizzato, un utopista pragmatico e un visionario razionale ma anche, e soprattutto, che è stato un grande tessitore di rapporti umani, un costruttore di alleanze sociali e culturali destinate a resistere e rafforzarsi nel tempo, un uomo dallo sguardo globale e dai pensieri lunghi o, per meglio dire, è stato più uomini insieme, in un caleidoscopio di sapere, onestà intellettuale, abilità oratoria e profondità morale che rendono le sue molteplici passioni un mosaico quasi perfetto.

Fino alla fine, oggi che compie un secolo e ci ritroviamo qui a riflettere sulla straordinaria attualità del pensiero e delle intuizioni di quest’uomo passato attraverso un’interminabile serie di sconfitte cui la storia e il corso degli eventi hanno poi sempre dato ragione. Non a caso, a differenza di tanti dirigenti politici, Ingrao è sempre stato un uomo all’avanguardia e lo è tuttora, per via di questa sua innata capacità di porsi in ascolto e trovare una connessione sentimentale col prossimo, senza mai farsi trascinare dalla corrente ma ripercorrendola e indirizzandola verso un orizzonte di progresso.

E ora che abbiamo un Papa tacciato di essere comunista e una Cina votata all’imprenditorialità e al liberismo, ora che persino i più convinti estimatori di Berlinguer sono costretti ad ammettere che avessero ragione Ingrao e il gruppo de “il manifesto” quando sostenevano la necessità di imboccare il cammino di un’alternativa di sinistra, ora che riconosciamo l’assoluta continuità fra il pensiero laico e un certo pensiero cattolico nella difesa dei princìpi costituzionali, ora che tutti i partiti, ormai non più tali, sono costretti a fare i conti con un mondo giovanile nuovamente in subbuglio, ora ci accorgiamo che tutte le sconfitte di quest’uomo che “voleva la luna” sono state, in realtà, mattoni posti uno sull’altro lungo il difficile e tormentato processo di edificazione di un progressismo maturo e in grado di governare senza essere ossessionato dalla brama di potere.

Grazie e ancora auguri, eterno compagno Ingrao!


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