Editoria: dai finanziamenti a pioggia all’eutanasia. Il governo non conosce mezze misure

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Dopo gli anni dei soldi facili, in cui all’ombra del dipartimento Editoria di Palazzo Chigi vivevano e prosperavano testate che non brillavano per trasparenza di gestione (un esempio per tutti: L’Avanti di Walter Lavitola), sui giornali in cooperativa, di partito, di opinione e non profit si è abbattuta la scure dei tagli. Nessuno rimpiange i contributi a pioggia, ma ormai si è all’eccesso opposto: insieme con l’acqua sporca, si rischia di buttare via il bambino. Come se non bastassero le 32 testate giornalistiche costrette a chiudere negli ultimi 24 mesi, altre 100 testate rischiano di mandare i titoli di coda entro la fine dell’anno.
Dopo aver destinato 57 milioni di euro per il 2013, il dipartimento Editoria e Informazione ha comunicato che quella previsione potrebbe non essere rispettata. In pratica, non è certo che i finanziamenti arrivino nell’entità attesa dai giornali. Le imprese interessate hanno già approvato i bilanci 2013, inserendo alla voce “contributi statali” le somme promesse dal governo. Ovvio che se la previsione non fosse rispettata, nel bilancio 2014 andrebbero iscritte sopravvenienze passive. Le conseguenze sarebbero nefaste. Molte aziende chiuderebbero. In termini di occupazione, il bilancio sarebbe drammatico: i posti di lavoro a rischio sono circa tremila. Senza contare, le ripercussioni sull’indotto. Il taglio dei contributi non apporterebbe alcun beneficio allo Stato: il risparmio sarebbe di gran lunga inferiore alla spesa necessaria per garantire gli ammortizzatori sociali.
Con la chiusura dei giornali in cooperativa e non profit, l’Italia si priverebbe di un settore importante, che ha contribuito – sia pure con luci e ombre – a rafforzare il pluralismo dell’informazione. Di colpo, milioni di italiani si vedrebbero negato l’accesso all’informazione locale, di opinione o specialistica. Nessuno sogna il ritorno ai contributi a pioggia. Si tratta però di pensare in termini europei. E’ innegabile che nel settore siano presenti criticità e opacità sia sul piano gestionale sia sul versante della qualità e della completezza dell’informazione. Isolare le “mele marce”, espellere dal sistema chi non rispetta le regole è un obbligo, oltre che un dovere morale nei confronti di chi si sforza di confezionare un prodotti editoriali di qualità.
Per questo è necessaria una riforma che allinei l’Italia al resto d’Europa. Nel 2008, la spesa italiana per il sostegno diretto o indiretto al settore ammontava a 12,05 euro pro capite l’anno. Nel 2012, è scesa a 6,74 euro pro capite per poi toccare i 5 euro nel 2013. In Francia, la spesa pro capite annua è di 18,77 euro; in Gran Bretagna, di 11,68 euro; in Germania di 6,51 euro pro capite. L’Italia ha toccato il fondo. Risalire la china non sarà facile. Il problema va affrontato, e in fretta, in un quadro di ripensamento complessivo del sistema. Servono leggi che garantiscano una distribuzione equa e rigorosa delle risorse, salvaguardando il pluralismo dell’informazione e l’occupazione reale. C’è bisogno, insomma, di un salto di qualità culturale, di ripartire dal rilievo costituzionale dell’informazione e del giornalismo professionale. Facile soltanto a parole. Soprattutto in un Paese che – dalla mai risolta questione dei conflitti di interesse al progetto di legge farsa sulla diffamazione – riesce a produrre soltanto imbarazzanti silenzi o inequivocabili pasticci.


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