30 anni prigionieri della tv (di Berlusconi)

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Il primo “decreto Berlusconi” (passato alla storia con questo nome, vedi Wikipedia) fu emanato dal governo Craxi il 20 ottobre 1984, seguito dal secondo il 6 dicembre dello stesso anno. Trenta, lunghissimi anni.C’era ancora la lira, il muro di Berlino, l’URSS, la benzina con il piombo, la banda della Magliana, i partiti politici, e naturalmente c’era la Rai. E Berlusconi. Gli italiani lo conobbero così: era il proprietario delle prime televisioni commerciali, quelle che volevano fare concorrenza alla Rai, mandavano cassette da una città all’altra perché la legge non consentiva l’interconnessione per trasmettere in diretta. La Rai, di fatto, era ancora monopolio. Lo scanciva la Corte Costituzionale.
Forse non era giusto. Ricordo i dibattiti, la concorrenza, il mercato, ci guadagneranno tutti…

Chi ci guadagnò certamente fu Berlusconi e la sua Fininvest – nome che le nuove generazioni ignorano del tutto – perché quei decreti, che non furono approvati dal Parlamento se non dopo molti mesi e solo perché fu posta la fiducia, consentirono a Canale 5, Rete 4 e Italia 1 di diventare il secondo monopolio italiano della televisione. Tecnicamente abbiamo vissuto da quei giorni di 30 anni fa fino all’avvento del digitale terrestre e del satellite in un regime di duopolio, sconosciuto agli altri paesi europei. Qualsiasi risposta su Google spiega benissimo la differenza fra il “libero mercato” e il duopolio.

Eccoci qui dopo tre decenni, in un mondo tutto diverso, con l’euro, la fine della guerra fredda, internet, la multimedialità, la crisi economica più grave da quasi un secolo, e ci risiamo. Seconda Repubblica, terza Repubblica, ma siamo qui, alla stessa stazione di sosta di quei giorni di novembre del 1984: il patto del Nazzareno è stato basato sul salvataggio della Fininvest diventata Mediaset sulla pelle della Rai.

Fa un po’ tenerezza – o molta rabbia – leggere che un ex segretario del PD scopre ora che anche l’accordo Renzi- Berlusconi si basa su questo, come allora, come ancora nel 1990 sulla legge Mammì (sei ministri sei della sinistra DC si dimisero invano!), come decine di volte nel corso degli anni, come nel 2004 con la legge Gasparri, come le visite di un premier di sinistra a Cologno Monzese “grande realtà industriale del paese”, come ogni volta che sono stati nominati presidenti e direttori generali della Rai.
Ho passato questi 30 anni nell’azienda di servizio pubblico e la considero davvero una delle più belle d’Italia. Ma sempre, puntualmente, in questi 30 anni ho visto che alla reale emancipazione della Rai da ogni condizionamento mancava comunque un tassello, con o senza Berlusconi al governo: potersi espandere e crescere come si può fare solo nel libero mercato.

Siamo sempre stati condizionati dal non dover fare troppo male alla cosiddetta concorrenza, in alcuni periodi con più vincoli, in altri con un più autonomia.
Ma prigionieri. Prigionieri da 30 anni della TV di Berlusconi, sentendoci accusare di oscurantismo, di faziosità, di esagerazioni, di farneticazioni, leggendo fior di critici più o meno prezzolati sostenere che la TV non conta, non condiziona la politica, gli italiani sanno cosa scegliere, sanno valutare, e poi, nell’ultimo decennio, indicati come “retrogradi” perché convinti che anche nella realtà attuale la TV generalista, in Italia (all’estero è diverso davvero) è al centro dell’interesse della politica e condiziona sia la politica sia la formazione dell’opinione dei cittadini.

Adesso un premier che al tempo del primo decreto Berlusconi andava alle elementari opera, mutatis mutandis, come il governo Craxi del 1984. Magari lo fa via Twitter, ma guardandosi bene dall’investire davvero nel digitale, perché il digitale è l’ultima speranza per rompere la prigionia: quando la TV generalista avrà davvero perso il suo potere forse l’Italia potrà uscire da questa prigione trentennale e la Rai diventare, non a chiacchiere, qualcosa di simile alla BBC.


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