Premio Nobel per la Pace 2014, messaggio di speranza che un futuro migliore per chi non ha diritti è possibile

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“Un bambino, un insegnante, un libro, una penna possono cambiare il mondo”. Era il 12 luglio del 2013. Nel giorno del suo sedicesimo compleanno Malala Yousafzai interveniva all’ONU per lanciare la sua campagna per il diritto all’istruzione. Il 9 ottobre del 2012 era stata gravemente ferita alla testa e al collo da un commando di talebani saliti a bordo del bus su cui lei tornava a casa da scuola.
Per me Malala all’epoca era già un Premio Nobel per la Pace. Anzi ancor prima.
Malala sapeva i rischi che correva lottando per poter studiare. Aveva solo tredici anni quando su un blog curato per la BBC documentava i soprusi del regime dei talebani pakistani, contrari ai diritti delle donne, e alle violenze perpetrate con l’occupazione militare del distretto dello Swat dove lei viveva.
Ecco chi è Malala.
Ricordo ogni passaggio del suo speech al Palazzo di vetro. Indossava lo scialle appartenuto a Benazir Bhutto, aveva lo sguardo limpido, la voce ferma, mente lanciava il suo appello all’istruzione per i bambini di tutto il mondo.
Erano passati solo nove mesi dall’attentato che l’aveva ridotta in fin di vita, non sapeva  cosa il mondo si aspettasse da lei, ma era risoluta nel suo convincimento: chiunque avesse voce avrebbe dovuto agire affinché il ‘Malala Day’ fosse il giorno di ogni donna, ogni ragazzo e ogni ragazza che avessero la forza di ‘alzare’ la voce per i loro diritti perché, come lei ha ricordato durante il suo intervento all’Onu, centinaia di attivisti per i diritti umani e assistenti sociali lottano quotidianamente per raggiungere un fondamentale obiettivo di pace, istruzione e uguaglianza per tutti.
Lei si è  sempre definita ‘una ragazza tra i tanti’, sottolineando che migliaia di persone erano state uccise e milioni ferite dai terroristi. Lei era solo una di loro che non parlava per sé, ma per chi non aveva voce per essere ascoltato e chiedere l’opportunità, il diritto, di essere educato.
Quando il 9 ottobre del 2012 i talebani le hanno sparato alla testa pensavano che le pallottole l’avrebbero fatta tacere, ma hanno fallito.
I terroristi pensavano di cambiare i suoi obiettivi e fermare le sue ambizioni. Ma, come lei ha ribadito più volte, nulla era cambiato nella sua vita tranne che le sue debolezze, le sue paure e la sua disperazione erano svanite dando vita a una nuova forza, una consapevolezza potente e coraggiosa. E nessuna traccia di odio o di volontà di vendetta.
L’esempio di Malala, che ha fatto sua la filosofia della non violenza di Gandhi, Bacha Khan e Madre Teresa, vincitori e non di premi Nobel, ha dimostrato come il perdono sia l’unico sentimento che permetta di far proliferare messaggi di pace e di speranza per un futuro migliore possibile.
“Cii rendiamo conto dell’importanza della luce quando vediamo l’oscurità. Ci rendiamo conto dell’importanza della nostra voce quando ci costringono a tacere”.
Questo è ciò che ha lasciato a Malala la terribile esperienza del tentato omicidio di cui è stata vittima.
Quell’episodio le ha permesso di capire l’importanza di penne e libri.
Gli estremisti li temono. Il potere dell’educazione li spaventa. Hanno paura delle donne. La forza della voce delle donne li spaventa. Questo è il motivo per cui hanno trucidato 14 studenti innocenti a Quetta, pochi mesi dopo l’attentato a Malala. Ed è per questo che i talebani uccidono insegnanti, soprattutto donne, e distruggono le poche scuole attive in Pakistan.
Questi terroristi, come gli omologhi dell’Isis in Siria e Iraq, abusano dei nome dell’Islam per il proprio beneficio personale.
Quella islamica è una religione di pace, umanità e fratellanza. Ed è ciò che ispira tanti musulmani moderati come Malala, che lottano affinché l’educazione sia per ogni bambino un diritto e per ogni governo un dovere e una responsabilità.
Proprio per ribadire l’importanza dell’istruzione nella vita dei popoli, la giovane e coraggiosa studentessa pachistana e l’altro vincitore del Nobel per la pace di quest’anno, l’attivista indiano Kailash Satyarthi, da decenni impegnato a liberare i bambini dalla schiavitù, sono stati scelti dall’Accademia svedese per questo premio.
Dopo tre anni di designazioni discutibili, almeno a parere di chi scrive, la scelta per il 2014 è stata senza dubbio più efficace e dignitosa: una musulmana di 17 anni, simbolo dei diritti delle donne, e un operatore sociale indù di 60 anni, che in decenni di lotta non violenta ha salvato almeno 80.000 bambini-schiavi.
Un segnale importante, che accomuna due realtà costantemente in conflitto.
La speranza che tutti noi dovremmo augurarci si trasformi in un primo passo concreto, è che il ‘messaggio’ a pachistani e indiani – con il riconoscimento ai loro illustri connazionali – li esorti a sfruttare questa opportunità per cercare di risolvere le loro controversie per il Kashmir non con le armi ma con il dialogo.


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