La strage di Sampieri e il film denuncia che diventa reato

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storia di Massimiliano che documenta una strage, il suo film denuncia i ritardi delle ambulanze e lui viene denunciato per omissione di soccorso

Massimiliano è perito informatico, non sa nulla di tecniche di rianimazione, mai fatto un massaggio cardiaco né una respirazione bocca a bocca in vita sua. La mattina del 30 settembre si è trovato di fronte ad almeno quindici corpi che avevano bisogno immediato di un intervento medico. E non aveva idea di cosa fare, lui come gli altri che erano corsi sulla spiaggia di Sampieri, allarmati dalle urla dei naufraghi.
Aveva attraversato di corsa il boschetto che separa casa sua dalle dune. Si era trovato di fronte un uomo che gli correva incontro e aveva fatto appena in tempo a chiedere se avesse avuto bisogno di aiuto prima di essere spinto a terra. Non capiva perché corresse in quel modo quell’uomo, ma gli era chiaro che qualcosa di grave stava accadendo oltre la duna. È tornato indietro Massimiliano, ha preso la sua video camera ed è tornato a correre verso la spiaggia, con la netta sensazione di un deja vu.

Otto anni prima gli era successa la stessa cosa. Aveva sentito le stesse urla e si era trovato di fronte venticinque cadaveri annegati. E anche quella mattina ha trovato lo stesso scenario: gruppi di persone che si allontanavano dalla spiaggia, corpi stesi a terra, corpi in mare intorno ad un barcone arenato sulla seconda secca, a quindici metri dal bagnasciuga.

La telecamera ha registrato il suo respiro affannato, la corsa verso la spiaggia, le prime facce di migranti africani che dicevano di essere eritrei. Immagini mosse e confuse che si fermavano per la prima volta di fronte ad un uomo che sua zia cercava di far vomitare. È stata infermiera sua zia, all’ospedale di Ragusa, su quella spiaggia era la sola a sapere cosa andava fatto. “Fateli vomitare, fateli vomitare” ripeteva continuamente a tutti con il suo accento inglese, Carol Yates, zia di Massimiliano, eroina di Sampieri, di cui nessun giornale ha mai parlato. Ne ha salvati alcuni. Ogni volta che riusciva a fargli uscire l’acqua del mare li affidava a sua sorella, Maria Chiara Frugoni, mamma di Massimiliano che li afferrava con determinazione e li aiutava a respirare. Quella mattina Maria Chiara sembrava non aver bisogno di quel bastone che la aiuta a camminare.

Massimiliano correva da un corpo all’altro. Il suo film documenta il tentativo disperato di salvare i naufraghi. Uomini, donne e bambini, “Eritrea” dicono loro stessi guardando obbiettivo mosso e ansioso di Massimiliano. Ogni tanto l’occhio della camera fa una capriola, mostra il mondo rovesciato, registra voci ansimanti e il movimento di mani che premono sul petto di un uomo. Poi improvvisamente si rialza, la scena torna dritta e una voce grida: “ci vuole un’ambulanza! Ci vuole un’ambulanza!”

Quella frase si ripete continuamente nel film di cinquanta minuti di Massimiliano Di Fede, perito informatico.

L’ho incontrato su quella spiaggia il giorno dopo. Era ancora li con sua madre e sua zia a guardare la carcassa di un barcone che le onde avevano spinto fino a riva. Sembrava impossibile che scendendo da quella barca degli uomini fossero affogati. Quei tredici corpi chiusi nei body bag della scientifica erano stati portati via il giorno prima. Erano rimasti solo vestiti bagnati arrotolati nella sabbia e buste piene di pane fradicio sopra la barca.

Sono morti tra le nostre mani e noi non sapevamo cosa fare”. Massimiliano pronuncia queste parole mentre guarda l’orizzonte. Sua madre è di fronte a lui, poggiata sul suo bastone di legno e le sue parole hanno il suono di un’accusa: “sono arrivati tardi. I soccorsi sono arrivati dopo 90 minuti”.

C’è rabbia e frustrazione nei loro sguardi. Anche nel volto della zia infermiera che non era riuscita a salvarli tutti quei ragazzi eritrei.
Massimiliano si massaggia il petto. Quell’uomo che lo aveva sbattuto a terra gli ha incrinato tre costole. Non sa chi fosse, ne’ perché stesse scappando in quel modo.

Le cronache del giorno dopo raccontano di tredici morti, sei persone ricoverate in ospedale, due gravi e poi raccontano di frustate date dagli scafisti per costringere la gente a scendere dal barcone. Quelle frustate in realtà, non ci sono mai state. O meglio non le hanno date gli scafisti, i sette siriani ed egiziani fermati dalla polizia. Un testimone, un carabiniere in borghese, vede un uomo che colpisce con una cima un altro uomo, ma è solo un litigio nel delirio del naufragio, che i giornali ed i telegiornali trasformeranno nelle “frustate degli scafisti”.
C’è una notizia che passa in secondo piano. Scrive La Sicilia di “un fuggitivo travolto da un’auto pirata sulla strada provinciale Ragusana”. Un fuggitivo. Un naufrago che scappava e che è in fin di vita nell’ospedale di Modica. In realtà non era il solo a correre, erano tutti i naufraghi a scappare. I carabinieri hanno faticato per rintracciarli tutti e chissà se qualcuno gli è scappato. Li hanno accompagnati tutti al centro di accoglienza di Pozzallo, affacciato sul lungomare, stretto tra un deposito di barconi di migranti e la scogliera.

È li che incontriamo Shiran, un ragazzo di 25 anni, sopravvissuto al naufragio. Ci dice subito che nessuno è stato costretto a scendere dal barcone. Nessuno è stato frustato. “Ci siamo buttati perché avevamo paura di essere fermati e di essere identificati. Avevamo paura che ci prendessero le impronte e che saremmo stati costretti a restare in Italia”.
È una rivelazione che facciamo un po’ fatica a comprendere all’inizio. Poi tutto diventa improvvisamente chiaro. Ad agosto a Lampedusa gli eritrei avevano fatto una manifestazione per la stessa ragione. No finger print, no alle impronte digitali avevano scritto negli striscioni che portavano in corteo tra le spiagge affollate di turisti dell’isola.

La corsa di quell’uomo era dovuta a quello. Scappava dal trattato di Dublino che è legge europea e stabilisce che chi viene identificato in un determinato paese, in quello stesso paese deve fare richiesta di asilo. Ma nessuno di quegli uomini e di quelle donne che vengono dal mare vuole restare in Italia. Così scendono dai barconi e corrono a perdifiato, scappano il più lontano possibile per non essere identificati. Come correva quell’uomo il “fuggitivo travolto da un’auto pirata sulla strada provinciale Ragusana”.

La telecamera di Massimiliano, racconta quello che accade sulla spiaggia. Un carabiniere e un bagnino biondo si tuffano continuamente per tirare fuori dall’acqua i corpi. Poi l’obbiettivo riprende una scena surreale. L’inquadratura è fissa sul barcone mosso dalle onde. Un uomo entra in campo. Sta correndo, indossa tuta e scarpe da ginnastica. Fa jogging. Supera il barcone e passa in mezzo ai corpi mentre i soccorritori stanno ancora cercando di rianimarli.
È l’ultima scena prima dell’arrivo dell’ambulanza. “Quelli sono ancora vivi, andate lì” grida Massimiliano. la telecamera torna a brancolare nell’aria, le immagini sono mosse e sfocate, finché scompaiono insieme alle voci. Sono passati 50 minuti. È tutto finito.

Quelle immagini vanno in onda sul Tg2 la sera stessa assieme alla denuncia di Massimiliano e di sua madre appoggiata al suo bastone di legno. Sono arrivati tardi dicono, i soccorsi sono arrivati tardi.

Il giorno dopo il telefono cellulare di Massimiliano squilla ripetutamente. È un giornalista de La Sicilia. Gli racconta che la Procura di Ragusa ha avviato una indagine su di lui. Stanno vagliando il suo film e stanno valutando se ci sono gli estremi per una denuncia. Il reato ipotizzato è omissione di soccorso.

Massimiliano è perito informatico, non sa nulla di tecniche di rianimazione, mai fatto un massaggio cardiaco ne una respirazione bocca a bocca in vita sua. Ha solo la sua telecamera con cui documenta i naufragi della spiaggia di Sampieri, ha una zia infermiera in pensione e una madre che cammina grazie ad un bastone di legno. Sa che quel lunedì mattina c’erano loro e pochi altri sulla spiaggia di Sampieri. Sa che i soccorsi sono arrivati dopo 90 minuti e che i naufraghi sono morti tra le loro mani. Ora aspetta la comunicazione ufficiale dei magistrati per sapere se deve chiamare un avvocato, per sapere se qualcuno ha voluto vendicarsi della denuncia. Lui la chiama intimidazione, ma in realtà ha proprio l’aspetto di una vendetta.


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