La Fiat non può guidare il Corsera

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La querelle su Rcs-Corriere della Sera ha accompagnato (e accompagna) la storia dei media italiani da un numero pressoché infinito di anni. Su queste stesse pagine tra l’80 e l’81 fu forte la polemica contro la conquista del gruppo milanese da parte del duo Rizzoli-Tassan Din, con lo sfondo della P2. Fu un rilevante e delicato agone di potere, ben al di la’ dello stesso pur consistente valore dei giornali in questione. Fu una storia prodromica alla saga berlusconiana, ancora in gestazione.
I pro e i contro duellarono a lungo e, tanto per cambiare, non vinsero i buoni. Ancorché la strenua lotta del consiglio di fabbrica e del comitato di redazione avessero strappato uno Statuto di impresa che rimane un punto alto della narrazione politica e sindacale italiana. La stessa Federazione della stampa cambiò in corsa. Meno le organizzazioni confederali. Il direttore degli anni settanta, Piero Ottone, stava scomodo, tra l’altro per le aperture al Pci e per il coraggio di affidare a Pier Paolo Pasolini diversi editoriali. Guai. L’Italia andava verso il «Caf» e i media dovevano omologarsi, a partire dalla voce tradizionale della borghesia italiana. La P2 non fu una sceneggiata di nostalgici, bensì lo squillo di tromba della controriforma. Della restaurazione.
Ecco per sommi, sommari capi gli antecedenti. Tuttavia, nell’inerzia positiva delle battaglie del decennio precedente, arrivò nell’agosto del 1981 la legge 416 sull’editoria, che bloccò l’espansione selvaggia del gruppo, introducendo uno dei pochi tetti antitrust tuttora esistenti: il massimo del 20% della tiratura complessiva dei giornali quotidiani, limite reso ancor più rigoroso nella formulazione del capitolo successivo, la legge 67 del febbraio del 1987.
Ora, nel rivolgimento societario in corso, la Fiat rischia di superare il limite, dopo il raddoppio della sua quota e avendo nel portafoglio «La Stampa» e «La Gazzetta dello sport». Per non dire dei periodici, che sono un discorso a parte. Della Valle ha urlato – con pagine a pagamento, come si usa tra benestanti – alla minaccia per la libera informazione. E c’è del vero. Ramonet ci ricorda che «nella nuova guerra ideologica che la mondializzazione impone, i media sono usati come arma di combattimento» (2011). Ma per uscire serve qualcosa di diverso da una grida. Un movimento reale, per un’informazione democratica nel senso etimologico del termine. Che il caso del Corriere ci ricordi come esistano anche i giornali, oltre all’onnipresente schermo televisivo. L’anno passato è stato orribile: un milione in meno di copie vendute, pubblicità sotto terra. La crisi generale, ma non solo. E’ bene cominciare a parlare di fragilità cognitiva di un’Italia travolta da un insolito destino, la de-alfabetizzazione del paese per antonomasia seduto sui beni culturali.
Torniamo alla vicenda Rcs. Ha probabilmente ragione Ferruccio De Bortoli a dire che ben altro ci vuole per compromettere l’autonomia. Eppure, si vigili – a proposito, le Autorità vigilanti formalmente sono in ferie?- su ciò che accade. Chi è il (i) compratore dell’«in optato»? Cairo, qualche Cavaliere bianco, o nero? E il patto di sindacato, usato come schermatura contro le norme antitrust? Si potrà sapere qualcosa di certo, nell’epoca in cui sembra tutto «open»? Qui dentro si aggira un capitolo ancora non scritto del futuro dell’Italia. E’ un sintomo per capire la malattia. E si risponda al quesito, simile a quello che si fa la Fiom: nel caso si realizzasse il controllo del Corriere, potrebbe la Fiat andare contro la legge?

da “Il Manifesto”


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