“Ricordiamoci di Enzo Tortora”. Trent’anni fa, l’inizio del suo calvario

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Già trent’anni. Il 17 giugno del 1983 Enzo Tortora, accusato di reati gravissimi e infamanti (spaccio, detenzione, uso di sostanze stupefacenti, affiliazione alla camorra), viene arrestato su ordine della procura di Napoli; e inizia un lungo calvario che lo conduce a prematura morte. Di questa vicenda sappiamo molto, quasi tutto. Manca, tuttavia, a tanti anni da quei fatti, la risposta alla quinta delle classiche domande anglosassoni che dovrebbero essere alla base di un articolo: «perché?».

Alla ricerca di una soddisfacente risposta, si affonda in uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania, il democristiano Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo.

Il cuore della vicenda è qui. Sono le 21.45 del 27 aprile 1981 quando le Brigate Rosse sequestrano Cirillo. Segue una frenetica, spasmodica trattativa condotta da esponenti politici della Dc, Cutolo, uomini dei servizi segreti per “riscattarlo”. Per lui si fa quello che non si volle fare per Aldo Moro.

Viene chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro viene trovato. Durante la strada una parte viene trattenuta non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la “stecca”. A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un “ritorno”. Il “ritorno” si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta era costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Avessero dato un miliardo a ogni terremotato, sarebbero rimasti dei soldi. La ricostruzione è stata fatta solo in parte, e male; e il denaro è evaporato in mille rivoli.

Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli qui i termini di una questione che ancora “brucia”. Cominciamo col dire che Tortora era un uomo perbene, vittima di un mostruoso errore giudiziario; che il suo arresto costituisce per la magistratura e il giornalismo italiani una delle pagine più nere e vergognose della loro storia. E conta poco che poi si sia giunti a un’assoluzione piena. “La bomba dentro” che gli hanno fatto esplodere (parole dello stesso Tortora), è un ordigno che nessun artificiere è riuscito a disinnescare. Perché disinnescare non si poteva, come non si può restituire anche un solo giorno di detenzione ingiusta, a chi l’ha patita. Ricordo le parole malinconiche di un poveretto finito in carcere per anni, e poi proclamato innocente, estraneo alle accuse che gli erano state mosse. Cosa le è mancato, in tutti questi anni?, gli hanno chiesto. E lui: “Non ho mai potuto accompagnare mio figlio a scuola. Sono finito in carcere che era piccolo, ne sono uscito che era un uomo”. Ricopritelo d’oro quest’uomo, il danno patito non sarà comunque mai risarcibile, non ha prezzo.

«Cinico mercante di morte», così il pubblico ministero definisce Tortora; e aggiunge che più cercavano le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza. Il piccolo particolare è che di prove non ce n’era neppure una.

Giovanni Pandico, un camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Raffaele Cutolo: lo ascoltano diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un camorrista. Pasquale Barra detto ‘o nimale: in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia l’intestino… Con le loro dichiarazioni, Pandico e Barra danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti “pentiti”: curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali.

Arriviamo ora al nostro “perché?” e al “contesto”. A legare il riscatto per Cirillo raccolto dai costruttori, compensati poi con gli appalti e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della Direzione antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati «pentiti a orologeria»; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale.

È in questo contesto che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”: 850 mandati di cattura, e tra loro decine di arrestati colpevoli di omonimia, gli errori di persona. Nel solo processo di primo grado gli assolti sono ben 104… Documenti ufficiali, non congetture.

Come un documento di inquietante efficacia, l’intervista che feci per il TG2 con la figlia di Enzo, Silvia: Quando suo padre fu arrestato, oltre alle dichiarazioni di Panico e Barra cosa c’era? «Nulla». Suo padre è mai stato pedinato, per accertare se davvero era uno spacciatore, un camorrista? «No, mai». Intercettazioni telefoniche? «Nessuna». Ispezioni patrimoniali, bancarie? «Nessuna». Si è mai verificato a chi appartenevano i numeri di telefono trovati su agende di camorristi e si diceva fossero di suo padre? «Lo ha fatto, dopo anni, la difesa di mio padre. È risultato che erano di altri». Suo padre è stato definito cinico mercante di morte. Su che prove? “Nessuna”.Suo padre è stato accusato di essersi appropriato di fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia. Su che prove? «Nessuna. Chi lo ha scritto è stato poi condannato». Qualcuno le ha mai chiesto scusa per quello che è accaduto? «No». Nessuno dei “pentiti” che ha accusato Tortora è stato chiamato a rispondere delle sue calunnie.

I magistrati dell’inchiesta hanno tutti fatto carriera. Ma anche noi giornalisti non ci abbiamo davvero fatto una bella figura. Sì, ci sono stati Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Leonardo Sciascia, Indro Montanelli, Vittorio Feltri, Massimo Fini, a sollevare dubbi, ad essere perplessi. Onore a “Giò” Marrazzo, inviato del “Tg2”, che ammette: “Scendo a Napoli convinto della sua colpevolezza, mi accorgo, mano a mano che il processo va avanti, che è innocente”. E diamo atto della onestà di un Paolo Gambescia, che chiede scusa per quello che ha scritto, convinto che fosse vero. Ma tutti gli altri, tutti gli altri sicuri accusatori di Tortora, spesso “perché era antipatico”? Perseguitato per “pentito preso”, come qualcuno disse allora, la tremenda lezione di questa storia non dovrebbe essere dimenticata. Nel 1507 a Venezia Pietro Tascal, detto il “Fornareto”, in quanto garzone di fornaio, fu accusato di assassinio, condannato e impiccato. Emerse poi la sua innocenza. Il Consiglio dei Dieci, potentissimo organismo della Serenissima Repubblica, ne decise pubblicamente la riabilitazione, ordinando che da allora in poi, a conclusione di un giudizio e prima che i giudici si ritirassero in camera di consiglio, il cancelliere recitasse la formula “Recordève del pòvaro Fornareto”, monito per una estrema attenzione a non commettere errori giudiziari.

“Ricordatevi di Enzo Tortora”, dovrebbe essere scandito nelle aule giudiziarie, nelle redazioni, e dentro ognuno di noi. Stroncato da un tumore Tortora ha voluto essere sepolto con una copia della “Storia della colonna infame”, di Alessandro Manzoni. Sulla sua tomba, dettata da Leonardo Sciascia, l’epigrafe: «Che non sia un’illusione». Tocca a tutti noi, che non lo sia.


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