Teatro Quarticciolo

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“Scusi, dov’è il Quarticciolo?”. Il guidatore dell’auto domanda ad una mamma che spinge il figlioletto nel carrozzino dove abbia sede quel teatro. Una piazza semi blindata da un cantiere aperto, un sole quasi estivo e la voglia di riscatto culturale che sembra avvolgere anche i visi di un gruppetto di amici fuori a un bar. Domenica pomeriggio. Quartiere Prenestina. Periferia di Roma. È qui che è rinata la realtà del Teatro Biblioteca Quarticciolo, dove da circa un mese tre compagnie teatrali (Neraonda, Tramartis e Trousse) hanno preso in gestione la sala diretta da Veronica Cruciani, dopo aver vinto un bando. Un teatro sovrastato da una biblioteca che, fa specie, vedere affollata da giovani intenti nella lettura finanche in un giorno festivo. Un teatro che è simbolo di quella commistione che, se si vuole, può realizzarsi alla perfezione tra teatro cosiddetto civile, sociale o impegnato che dir si voglia e il contesto popolare circostante. “Un teatro è insieme un luogo di riunione e un vettore di comunicazione – afferma la direttrice artistica sul sito della sala -: permette a una comunità di restare unita senza confinarsi nel suo orizzonte più ristretto e regressivo. L’esistenza sul territorio di un teatro-biblioteca raddoppia questa tendenza all’apertura. Perché la parete più spessa che separa una periferia come il Quarticciolo dal resto della città è anche quella rappresentata dal diffuso sentimento di solitudine che affligge i suoi abitanti, a cominciare dai più giovani, che proprio quelle barriere urbanistiche e sociali finiscono per introiettare. Fin dall’inizio del lavoro che ho svolto al TBQ per il Teatro di Roma ho compreso di dover lavorare anzitutto sulla rottura di questo confine invisibile”. Spazio dunque, a concerti, laboratori, incontri con autori di letteratura contemporanea e reading che caratterizzano la nuova gestione artistica del Quarticciolo. Stagione dove spiccano i nomi di personalità come il regista Ruggero Cappuccio, che domenica scorsa ha mirabilmente fatto rivivere sul palco Paolo Borsellino. Autore ed interprete di “Essendo Stato”, lo spettacolo con aiuto regia di Nadia Baldi che porta in giro per l’Italia dal 2004, il regista ha regalato al pubblico un Borsellino più “intimo” ed “umano”, che vive il suo dramma di servitore di uno Stato che, troppe volte, Stato non è. Anche nel non riconoscere, a distanza di ventuno anni, il massacro consumatosi in via D’Amelio il 19 luglio del ’92 come strage. In scena, per un’ora e un quarto, Cappuccio impersona il giudice amico di Giovanni Falcone con un’umanità ed una sofferenza interiore rare. Per la prima volta vengono rese pubbliche le dichiarazioni che il magistrato rese davanti al Consiglio Superiore della Magistratura il 31 luglio 1988: “Quale condanna è più amara di quella che mi arriva dallo Stato? Uno Stato che non ci sostiene?”. Un uomo che è stato “giudice” e “dottore” per gli uomini della scorta e “Paolo” per i suoi familiari. A toccare le corde dell’anima nello spettatore Cappuccio-Borsellino giunge quando si (ri)trova, ormai figura eterea, tra i corridoi della Procura di Palermo, accompagnato dal Professore che gli mostra le stanze in cui “riposano” i “martiri” che lo hanno preceduto: Mauro De Mauro, Peppino Impastato, Carlo Alberto Dalla Chiesa e la moglie Emanuela Setti Carraro, Boris Giuliano, Pio La Torre e l’amico di sempre Giovanni Falcone. Una piece che ha incuriosito anche un pubblico, come quello della periferia romana, dove qualche anno fa (era il 29 novembre 2008) un attore e regista come Ferdinando Maddaloni aveva portato in scena il documentario-spettacolo dedicato alla giornalista russa Anna Politkovskaja.


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