“Polizia e carcere più violenti quando lo Stato è debole”. Lunedì 8 aprile in Corte di Assise il caso Cucchi con le parti civili; il 15 a Rebibbia

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In un quintetto base sarebbe il pivot, quello attorno al quale ruota la squadra. Purtroppo però non si tratta di un gioco, semmai di una partita della vita, molto più spesso della morte. Fabio Anselmo (nella foto) è il legale delle quattro donne più conosciute tra le tante che rimangono anonime alla ricerca della verità sui decessi degli uomini delle loro famiglie. Cucchi, Aldrovandi, Uva e Ferulli: fermati o arrestati, tutti comunque in “custodia”. Tutti morti.

Negli ultimi sette giorni dal suo studio di Ferrara sono uscite una querela all’ex ministro Giovanardi (per aver detto che la macchia rossa fotografata sotto la testa di Federico Aldrovandi non è sangue) e una denuncia al pm di Varese Agostino Abate per favoreggiamento e abuso in atti d’ufficio fatta dalla nipote di Uva. Una buona media.
Il contesto politico e culturale in cui ci muoviamo ha una diretta conseguenza con l’andamento dei processi. L’attenzione dei media è l’unica via per eludere insabbiamenti, presunte indagini e le ostilità oggettive di una politica. Ricordiamo nel caso di Stefano Cucchi, lo stesso Giovanardi allora ministro, parlava di “zombie sieropositivo” per affibbiare alla vittima la responsabilità della sua morte. Domani alla Corte di Assise si riparte con le requisitorie, il 15 a Rebibbia le parti civili. Senza i riflettori dei media, questi processi spesso non vengono nemmeno celebrati.

Parliamo di decessi avvenuti durante uno stato di custodia. Negli ultimi dieci anni i soli casi conclamati sono almeno 17 e per molti non è ancora dato sapere chi siano i colpevoli. Perché lo Stato ha così paura della verità?
Perché non ama essere messo in discussione. Le violenze di Stato sono un problema reale, pur evitando una criminalizzazione generalizzata, i fatti ci dimostrano che questi non sono accadimenti sporadici ma al contrario molto diffusi. Da decenni lo testimoniano gli stessi rapporti europei. Gli atteggiamenti dei sindacati di polizia poi devono far riflettere. I reati commessi dai singoli non possono essere difesi d’ufficio dalle corporazioni, dalle associazioni di categoria. Servirebbe un efficace controllo preventivo delle tutele pubbliche. Se lo Stato non è in grado di licenziare chi ha abusato dei suoi poteri (caso Aldrovandi) perde di credibilità. E intanto le famiglie travolte da queste tragedie rimangono sole ed emarginate. Poche resistono. Alcune ipotecano la casa e si indebitano per i processi. Altre rinunciano.

La questione rimane aperta: forze dell’ordine chiamate a tutelare la sicurezza dei cittadini che diventano carnefici. Manca un’adeguata formazione per gli agenti della Polizia di Stato?
L’analisi è complessa; sicuramente manca un’adeguata attività di formazione alla quale si aggiunge un diffuso sentimento di frustrazione dovuto all’incapacità dello Stato di garantire in modo reale e concreto la certezza del diritto e della pena. Spesso poi l’operato delle forze dell’ordine viene vanificato da cavilli e trappole processuali dei quali si possono avvantaggiare quelli che hanno disponibilità economiche. I poliziotti in strada spesso rischiano la pelle e chi interpreta il proprio mestiere talvolta cede alla tentazione di essere il giustiziere, detentore esclusivo della legalità.

Dal suo punto di vista, la smilitarizzazione del corpo ha cambiato qualcosa?
Non credo sia un problema ascrivibile solo a forze dell’ordine militarizzate, ma piuttosto di carattere generale che investe tutti, nessuna escluso. La posta in gioco però è alta, perché viene messo in discussione il contratto sociale tra Stato e cittadini. Lo Stato può usare la violenza soltanto come ultima scelta possibile e deve essere proporzionata alle circostanze contingenti. Se la utilizza è perché non sussiste alcun altro rimedio. Quando accade il contrario, chi sbaglia deve essere perseguito senza ritrosia o tentennamenti. In concreto purtroppo ci imbattiamo spesso nella scarsa sensibilità di pm e giudici rispetto al verificarsi di questi episodi che mettono in discussione i loro rapporti funzionali con le forze dell’ordine.

Esistono decine di commissioni parlamentari, il più delle volte mummificate. Una sui morti nelle mani dello Stato forse avrebbe di che occuparsi.
Non credo nelle commissioni parlamentari, perché non ho fiducia nella nostra classe politica. Basta pensare all’approvazione della legge sulla tortura dove lo Stato italiano ha dato l’ennesima prova di pregiudizio culturale. Preferiamo subire i richiami dell’Onu nell’ipocrisia di chi ritiene che in Italia non esista la tortura. Le condizioni delle nostre carceri sono tortura. Allora mi domando: chi non vuole la legge sulla corruzione? I corrotti. Chi non vuole quella sulla tortura?

Nelle prossime settimane sono fissate le udienze per Cucchi, Uva e Ferulli, l’uomo pestato da poliziotti in una strada di Milano le cui immagini sono state l’unica prova contro gli aggressori. Come ci si prepara a udienze dove sotto accusa sono le forze dell’ordine e un magistrato?
Per Uva l’udienza del 16 è finta perché il pm porta a giudizio dei medici per una colpa che non esiste neppure per il suo consulente. Ferulli è tutto da iniziare, mentre il processo Cucchi entra nel vivo, ci affidiamo alla Corte perché si appropri dello scempio che è stato fatto a Stefano.

* da Il Fatto Quotidiano


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