Elisa, il film più politico di Leonardo di Costanzo, presentato in concorso all’ 82esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, resta nelle sale cinematografiche come uno tra i film più interessanti da vedere.
Leonardo Di Costanzo (regista che ha sempre fatto film politici, sin dai documentari e da L’intervallo, del 2012 fino a Ariaferma, del 2021), affronta con Elisa un annoso dibattito giuridico ed etico su come affrontare il male. Tratto da una storia vera e dal libro Io volevo ucciderla (Raffaelo Cortina Editore, 2022), dei criminologi Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Elisa invita a percorrere un cammino di conoscenza per provare a guardare cosa sia la colpa, da più punti di vista, senza mai giudicarla. Punire non può essere l’unica forma di elaborazione della pena. Il dibattito che alimenta le pieghe più profonde della Giustizia è di natura politica: riguarda colpevole, vittima, società.
Sinossi – Elisa Zanetti è rinchiusa da 10 anni in una struttura riabilitativa, dopo essere stata condannata per l’assassinio della sorella e il tentativo di fare lo stesso con la madre. Vive nell’Istituto Moncaldo, nel verde della Svizzera, fa la corista, lavora nel bar della struttura, legge libri. L’unico a incontrarla settimanalmente è il padre. La donna decide di partecipare alle lezioni tenute in istituto da un criminologo impegnato in studi scientifici sul crimine, inteso come fattore umano, e sui crimini commessi dalle detenute. Così, Elisa sceglie di collaborare alla ricerca del professore, iniziando un faticoso percorso dentro quel passato che sembra sin qui aver rimosso, ma che si rivela la chiave per sprofondare davvero nel male che ha commesso. Con il delicato ma inesorabile supporto del criminologo, soltanto ora Elisa può concedersi di “spostarsi” da ciò che sin qui è stata.
Gli interpreti principali del film sono Barbara Ronchi (Elisa), Roschdy Zem (Alaoui, il criminologo), Diego Ribon (padre di Elisa), Valeria Golino (Laura), Giorgio Montanini (Radice).Il film è prodotto da Tempesta con Rai Cinema, in coproduzione con Amka Films Productions (Svizzera), RSI Radiotelevisione svizzera. È realizzato con il contributo del Fondo per lo Sviluppo degli investimenti nel Cinema e nell’Audiovisivo, con il supporto di Ufficio federale della cultura (UFC), con il sostegno di IDM Film & Music Commission Südtirol, sviluppato con il sostegno di Emilia-Romagna Film Commission, con il supporto di Ticino Film Commission ed è distribuito in Italia da 01 Distribution.
Da dove nasce il suo ultimo film, Elisa?
Ho la sensazione che questo film sia il passaggio di un percorso: un film chiama quello successivo ed è come una convergenza di pensieri e di intuizioni passate che trovano una strada. Per quanto riguarda Elisa, l’dea nasce da una suggestione che mi diede il criminologo Adolfo Ceretti. Mi mandò le trascrizioni degli incontri che lui e il suo collega Lorenzo Natali ebbero in carcere con una donna che aveva ucciso la sorella. Conosco Ceretti da tempo, mi ero confrontato con lui anche mentre lavoravo ad Ariaferma, Iniziai a leggere questa trascrizione, molto lunga e molto fedele, degli incontri che i due criminologhi hanno avuto con Stefania Albertani, responsabile del fatto di cronaca realmente accaduto. Il lavoro su questo film è durato quasi tre anni, non mi è facile definirne i dettagli. Mentre giravo Ariaferma, mi venivano in mente nuove domande. Quel film si faceva promotore di un incontro tra detenuti e guardie penitenziarie. Mentre proponevo questa possibilità allo spettatore, capivo che la mia richiesta era possibile soltanto perché non conoscevamo i reati compiuti dai detenuti del film (tranne quelli di due personaggi, il più giovane e il più vecchio). Ho capito quindi che se avessimo saputo davvero cosa avessero commesso quelle persone per essere dentro un carcere, forse la mia richiesta di adesione da parte del pubblico non sarebbe stata possibile, perché ciascuno di noi, messo di fronte ai particolari di un crimine, ha un istintivo senso di rifiuto e distanza e nessuno avrebbe voluto l’incontro che sta al centro di Ariaferma. Durante e dopo quel film, dunque, mi chiedevo già come raccontare, attraverso il cinema, un crimine, senza avere un atteggiamento né perdonista, né accusatorio, ma di testimonianza. Elisa risponde a questa domanda. La mia sfida era questa: se il cinema riesce a guardare un crimine senza giudicarlo, allora probabilmente anche la società riuscirà ad avere un atteggiamento meno arcaico di quello attuale nei confronti dei portatori di colpe, anche le più terribili. Per “arcaico” intendo meno medievale, meno giudicante. Ho molta paura di utilizzare le parole sbagliate: non sono né un criminologo, né un filosofo del diritto. Ma so che ci ho messo anni per trovare un equilibrio in questo film. E la ricerca di questo equilibrio è stata complicata, sia in scrittura, che in recitazione, che in montaggio. È stata una battaglia corpo a corpo. Qualunque cosa io aggiunga al film che ho fatto, temo sempre di dire sciocchezze. Ho letto decine di volte il libro di Ceretti e Natali, ho riletto in continuazione le parole di questa donna. Dovevo cercare di capire lei, per raccontarla: comprendere quali fossero le strategie che aveva messo in atto e scovare fino in fondo la necessità vitale che aveva di parlare, raccontarsi, mettersi a nudo davanti ai due criminologi. Anche perché lei, nella realtà, conosceva benissimo il lavoro di questi studiosi: aveva letto i loro libri, aveva studiato criminologia, sapeva perfettamente il tipo di lavoro che avrebbe dovuto affrontare con loro. Ho immaginato, quindi, che questa donna dovesse sentire l’urgenza di fare i conti con sé stessa. E questa urgenza vitale, credo, porti con sé molte contraddizioni intime. Leggendo le sue parole si trovano momenti in cui si rappresenta, momenti in cui seduce, momenti di totale sincerità ed è tutto molto intrecciato e a volte contraddittorio. Dovevo trovare il modo per portare quelle parole scritte sullo schermo, tradurle in immagini. E poi c’era la necessità di capire anche la ricerca dei due studiosi: Ceretti e Natoli si occupano di “criminologia dialogica”, perché attraverso i loro studi hanno verificato che questa forma di dialogo apre delle brecce di consapevolezza in chi commette reato. La criminologia dialogica attua dei processi di trasformazione in chi si racconta. I due, infatti, usano parole molto precise, cercano la giusta distanza tra l’essere accoglienti, dando fiducia al colpevole che hanno di fronte, ma senza essere compiacenti, né giudicanti.
Nella ricerca di portare al cinema questa distanza, il suo sguardo sembra aderire a quello del criminologo, nel film. È così?
In qualche modo sì, ma il cinema esiste anche perché parte dal punto di vista di chi fa un film. Ma non è detto che il punto di vista del regista sia quello di un unico personaggio.
Com’è costruita la drammaturgia di Elisa?
Nei miei lavori precedenti, L’intrusa, Ariaferma e via dicendo, avevo creato dei personaggi che fossero i portatori di una colpa. Questi personaggi, i colpevoli, a un certo punto del film entravano tutti, in un modo o nell’altro, all’interno di un “contesto scoiale”. Con l’ingresso del colpevole, cosa accade all’interno del gruppo? Le dinamiche che nascono da questo incontro diventano drammaturgia. È la logica del western, insomma: in un determinato ambito, entra in scena il cattivo, che si contrappone al tutore dell’ordine, per fare un esempio. L’atteggiamento, lo sguardo, cioè, prendono vita dall’osservare le relazioni sociali che si sviluppano e che creano drammaturgia. In Elisa, invece, il rapporto è frontale nei confronti della colpa: non c’è nessun gruppo che affronti il colpevole, nessun personaggio che gli si contrapponga. In questo film è tutto già accaduto: il delitto è stato commesso; il padre della donna accompagna una figlia (perché il suo ruolo è quello del padre, si comporta come un padre che sta accanto a un figlio, sempre e comunque); la madre non c’è più. Insomma è tutto chiaro. La mia speranza è che, vedendo Elisa, il contraddittorio, il dibattito con il colpevole avvenga nello spettatore, vorrei si attivasse durante la visione del film e proseguisse dopo la visione, tra le persone fuori dalla sala. In questo dibattito, in questo confronto con la colpa, ovviamente, ci saranno spettatori che non vogliono essere chiamati in causa, ci saranno senz’altro persone convinte che questa donna sia pazza, o cattiva e che la cosa non le riguardi minimamente.
Come si pone, il suo cinema, nei confronti della colpa?
In tutti i miei film, la colpa è scontata, è chiara, è evidente. Non metto mai in discussione la colpa in sé, ma il modo in cui essa viene affrontata. Durante i dibattiti che seguono la visione in sala, ai quali ho partecipato, ho constatato che nello spettatore, in alcuni casi, deve vincere il principio di immedesimazione assoluta con il protagonista del film. Mi spiego: pur trattando esso un fatto realmente accaduto, dove per l’appunto la colpa è già avvenuta e la responsabile è già in carcere, ci sono spettatori che si immedesimano a tal punto con il personaggio di Elisa da volerla scagionare, in un modo o nell’altro. Questa reazione che ho raccolto e ascoltato nelle sale mi fa capire, anche quando tratta di fatti veri, quanto il cinema vinca sempre (com’è giusto che sia), e la realtà passi in secondo piano.
Barbara Ronchi, in effetti, è portentosa e l’identificazione alla quale ho fatto riferimento avviene perché l’attrice è talmente “nella parte”, è così consapevole del dolore che il suo personaggio porta in sé, da poter creare una sorte di compenetrazione in esso, da parte dello spettatore. Anche nell’iniziale ammissione di aver rimosso le dinamiche che ha adottato per uccidere la sorella; anche dopo i primi incontri con il criminologo, ai quali segue una somatizzazione del dolore di ciò che sta capendo di aver fatto; anche mentre legge la lettera che il criminologo le invia dopo anni dai loro scambi: in ogni momento la Ronchi è misurata, compenetrata, conosce il personaggio che deve raccontare.
A tale proposito, vorrei capire come ha costruito il personaggio di Elisa.
Leggendo le trascrizioni degli incontri tra la donna e i due criminologi della realtà, credo di aver capito che, a un certo punto, lei stessa ammetta di cominciare a ricordare e, da qui in poi, non riesce più a gestire da sola il peso di ciò che ha fatto. Deve proseguire la ricerca perché il ricordo, che man mano riaffiora sempre più chiaramente, è insopportabile. Soltanto con l’aiuto neutrale, scientifico del criminologo, delle sue domande, questa persona può capire che non ha commesso un gesto inconsulto, nell’uccidere la sorella, ma lo ha organizzato e lo ha compiuto perché dettato da una paura. E allora, quando il criminologo comincia a indagare più in profondità (perché capisce che solo ora lei è in grado di andare più in profondità), chiede da dove nasca la paura, da quanto tempo sta lì la paura, perché c’è la paura.
La criminologia dialogica, dunque, scava nel crimine ma ne sospende ogni tipo di giudizio, consegnandolo come tale al colpevole per farlo uscire da uno stato mentale e aprilo verso un nuovo movimento. Se così è, in qualità di regista, non certo di scienziato, come ha mantenuto la stessa distanza che deve mantenere uno studioso?
La scelta delle parole, degli attori, dei luoghi, della fotografia, delle riprese, del montaggio, di tutto ciò che dà vita al film, avviene per me dopo un lungo ragionamento, ma in base all’istinto. Parlo di un istinto educato dalla precedente e lunga riflessione su come vorrei fosse il film che sto facendo. Non so mai come sarà il lavoro finito: quando lo rivedo, cioè, è sempre diverso da come lo avevo immaginato. Provo a controllare tutto, ma non mi riesce. E credo sia un bene, perché se l’istinto educato sceglie per me, vuol dire che il cinema resta, è, un gesto artistico. Anche i miei film apparentemente più cerebrali, più parlati, più faticosi da guardare, sono comunque, un gesto creativo, fortunatamente.
Come ha condotto il lavoro con gli attori?
Barbara Ronchi è stata straordinaria, lo abbiamo detto. Ma tutti lo sono stati. Durante le prove, soprattutto, cercavo di dare indicazioni precise. Poi, man mano che si andava avanti, ciascuno di loro prendeva confidenza, e quindi autonomia, col proprio personaggio e capivano sempre meglio anche cosa desideravo restituissero di lui a me, regista. Durante le riprese, dunque, avevano una tale intimità con chi interpretavano, che ne sapevano quasi più di me e sul set apportavano, dopo i mesi di prove, una paletta di possibilità che io poi sceglievo. Ed è stato un grande piacere per me, tra un ciak e l’altro, rendere loro omaggio della bravura e sensibilità dimostrate.
Mi può parlare del lavoro di montaggio del film?
Carlotta Cristiani ha iniziato a montare da sola: io non ho potuto raggiungerla, subito dopo le riprese, per problemi personali. Ho iniziato a lavorare con lei quando la struttura del film era già più o meno quella finale e, dalle scelte che aveva fatto da sola, mi proponeva alcune soluzioni che in parte modificavano e arricchivano i personaggi e le relazioni tra di loro. Così, ancora una volta, scoprivo l’importanza del montaggio. Ritengo infatti che il montatore sia da considerarsi coautore del film, assieme a regista e sceneggiatori. Da tempo sostengo questa cosa e spero che prima o poi venga riconosciuto il suo ruolo, determinante nella scrittura finale del film.
L’istituto riabilitativo del film rispecchia alcuni modelli esistenti soprattutto nei Paesi scandinavi. Non esistono da nessuna parte, però, carceri così.
Mi piaceva l’idea di girare questo film in un bosco, cercavo un luogo che rispondesse contemporaneamente all’idea di protezione e a quella di libertà. Mi serviva un luogo semplice, familiare a chiunque: le casette di legno dove vivono le detenute, il prato, gli alberi, i sentieri: il tutto, non troppo lontano dalla città perché si potesse contemplare la possibilità che i cittadini entrino in questo luogo di detenzione. Infatti, l’istituto del film è molto popolato: bambini, amici, familiari delle donne che lo abitano, personaggi che entrano ed escono per andare a trovarle. Un posto “poroso” lo definirei, che sottolineasse come la ricerca del criminologo fosse in qualche modo in sintonia con la filosofia detentiva e riabilitativa dell’istituto Moncaldo
Vorrei chiederle ora qualcosa del personaggio di Valeria Golino, che rappresenta il rovescio della medaglia del concetto di colpa. La Golino interpreta una madre, alla quale è stato ammazzato il figlio da una banda di ragazzi. La si vede brevemente all’inizio del film, mentre segue le lezioni tenute dal criminologo nell’istituto dove Elisa sconta la sua pena. Davanti a tutti, questa madre fa una domanda al criminologo. Ma sul finire del film, vuole parlare a tu per tu con lui perché, pur avendolo ascoltato, non è in grado, non vuole, non sa, da sola, dare pace alla propria disperazione.
L’odio e il rancore che Laura (il nome del personaggio della Golino) prova verso i ragazzi che hanno ammazzato il figlio, non danno a questa madre alcuna risposta, non la consolano, perciò inizia a seguire le lezioni del professor Alaoui (il bravissimo attore e regista francese di origine marocchina Roschdy Zem), del quale ha letto i libri. Giunge così, nella sua ricerca di senso, alla necessità di qualcosa che possa toglierla dalla condizione di immobilità in quanto vittima. Tutti noi vediamo quanto possano essere diverse, da persona a persona, le reazioni di chi è vittima di una perdita ingiusta e violenta. Basti pensare all’atteggiamento di chi si predispone a incontrare chi ha ucciso una figlia, per esempio, e a quello di chi, al contrario, vorrebbe vedere morto chi ha causato tanto dolore. Il personaggio di Valeria Golino sta in mezzo a questi due poli. La gabbia dell’odio non le basta e va verso l’apertura proposta da Alaoui. Ma non c’è la fa, almeno per il momento, ed è in qualche modo delusa e arrabbiata col criminologo, perché pensa non sia stato in grado di darle le risposte che cercava. “Guardare il male non mi è servito a nulla”, ammette Laura con dispiacere, anche se, prima che si concluda il loro incontro, gli sussurra: “Lei è coraggioso”. Questo personaggio, per me, era necessario al fine di portare all’interno del film il punto di vista delle vittime e non avrebbe potuto essere altrimenti.
Questo personaggio è inventato da lei, non c’è nel libro di Ceretti e Natali Io volevo ucciderla.
No, non è un personaggio reale. Per evitate che lo spettatore potesse totalmente identificarsi soltanto con il dolore e con il riconoscimento della colpa di Elisa, era necessario creare un contraltare: riportare lo spettatore a un sentimento più equidistante da Elisa. Lo dicevamo prima, volevo evitare l’immedesimazione con la protagonista (anche se qualche volta è avvenuta). Ho voluto che lo spettatore ricordasse che Elisa è colpevole della morte della sorella, per rimettere i piani di realtà in ordine, separati dai piani dell’istinto. Perché il cinema ha un potere enorme. Un film che racconti la vita del peggior assassino, seguendone le mosse quotidiane, le debolezze, i difetti, crea comunque, nello spettatore, una sorta di trascinamento nella sua vita, che fa quasi dimenticare l’orrore che quel personaggio incarna. Qualunque mostruosità, insomma, se la si guarda da vicino e se si prende confidenza con essa, la si percepisce come fosse quasi familiare, simile a ciascuno di noi: se ne può sentire il calore, la sofferenza.
Perché tutto il suo cinema indaga la colpa?
Credo sia un interesse drammaturgico, in fin dei conti: dal tema della colpa si sviluppa drammaturgia, storia, racconto, conflitto. Tutto dipende da dove si situa il focus della narrazione. In L’intrusa, per esempio, la portatrice di colpa è Maria, moglie di uno spietato assassino, che chiede rifugio in una masseria. Il focus è centrato sulle reazioni della comunità delle mamme che frequentano il posto. Il suo arrivo in quella realtà genera un conflitto: le mamme la vedono come una minaccia, mentre Giovanna (la responsabile del centro), sente che il suo ruolo è anche quello di accogliere Maria. Quindi la trama si disegna lungo questo conflitto. In Ariaferma, il focus si trova nel possibile incontro di due gruppi umani che popolano il carcere: da una parte i detenuti (i portatori di colpa) e dall’altra gli agenti penitenziari. Il film racconta di un eventuale rapporto tra gruppi per definizione separati. In Elisa il focus risiede nel tentativo della protagonista di fare i conti con sé stessa e, di fronte a lei, come dicevamo prima, c’è solo lo spettatore. La colpa, quindi, è sempre presente nel mio cinema, ma dipende da dove si pone lo sguardo. Uno sguardo costruttore di storie che raccontino la società o, più in generale, l’umano.
Elisa è un film politico e, se sì, in che modo è politico?
La storia reale dalla quale Elisa è tratto, mi ha attirato esattamente perché intravedevo in essa un aspetto politico, benché si trattasse di una vicenda che riguardava un singolo individuo. In questo film, ci sono, però, due protagonisti: Elisa, la detenuta, e il criminologo, e – nonostante quest’ultimo appaia in secondo piano rispetto alla prima – è la visione del suo lavoro che determina il movimento, la trasformazione del personaggio principale. La concezione della Giustizia di Alaoui, il suo modo di considerare il colpevole sono l’aspetto politico. Osservare in profondità l’autore di un delitto (anche molto grave), al di là dell’atto compiuto, e verificare la possibilità di una eventuale trasformazione attraverso l’assunzione di consapevolezza, mi sembra un percorso per certi versi rivoluzionario. Soprattutto in un momento storico in cui, nella società e nel mondo, l’idea dominante risponde alla logica della punizione e della vendetta e, dunque, della guerra.
Il criminologo, nella lettera che Elisa legge alla fine del film, le racconta di trovarsi in un paese lontano (Sud America, Africa, non si sa), dove una guerra fratricida impedisce ogni forma di dialogo. Questo elemento nuovo nella vita di Alaoui, suggerisce che la sua attenzione, ora, è rivolta verso conflitti collettivi, non più individuali. Ma, in entrambi i casi, gli atteggiamenti di ascolto verso l’altro da sé, sono gli stessi. Il tutto, porta a credere che l’idea di una Giustizia ripartiva, possa essere la migliore forma di risoluzione di ogni conflitto, personale e non.
Guardando indietro, mi rendo conto di aver raccontato il funzionamento della società attraverso alcune sue strutture cardine: la scuola, l’amministrazione pubblica (nei documentari) il mondo del volontariato o le carceri (nei film) e mi pare vi sia, in chi lavora, studia e opera nella Giustizia, una riflessione e delle prospettive trasformate, al fine di mettere in discussione l’esistente e immaginare altri mondi. Riflettere su come trattare il portatore di colpa, immaginare come superare l’istinto, direi primitivo, del “prendetelo e buttate la chiave”, mi appaiono una possibilità di trasformazione radicale dello stare insieme e del vivere comune. Il fatto, cioè, che il colpevole di un delitto efferato riesca a muoversi dalla colpa nella quale è rinchiuso, per spostarsi da uno stato cristallizzato, mi sembra un atto politico. E questo è un film politico anche perché c’è un personaggio, il criminologo, che si fa promotore di questo spostamento da sé da parte del colpevole (Ronchi), così come da parte della vittima (Golino). Ma per far sì che questo spostamento avvenga è necessaria l’assunzione di responsabilità, perché è la premessa di qualunque trasformazione possibile.
