Presagi di nazifascismo. Da Roma a Lugano, successo per le “vanita’” di Canetti

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Noto ai più quale saggista, scrittore-antropologo, memorialista frammentario e fulgido  di aforismi  (fulminanti, lapidarie intuizioni sulla condizione umana “per sempre o in una determinata epoca storica”), Elias Canetti (ebreo di Bulgaria naturalizzato britannico nel 1952 e Premio Nobel nel 1983) si occupò di teatro in due drammi giovanili degli anni ‘30“ mosso dall’estremo tentativo di additare l’entità del baratro che di lì a poco l’Europa non sarebbe riuscita ad evitare” (A. Zangari).  Sia per “La commedia delle vanità” sia per “Nozze” – le sue ipotesi drammaturgiche, rivalutate solo negli anni ’60-  il modello di riferimento, implicito e  mai dichiarato, è l’estro dirompente, l’inesauribile pubblicistica di un incendiario “compagno” di cordata (“polemista e fiume in piena”), ravvisabile nel viennese  Karl Kraus che già nel 1918 – al termine del primo conflitto- aveva immaginato e redatto l’ apocalittica summa de “Gli ultimi giorni dell’umanità”, in cui già si intuiva (come dimostrò Luca Ronconi in una maratona scenica al Lingotto di Torino  a metà degli anni ’80) quell’ipotesi -post ideologica- di “fine della Storia” che, a fine millennio, animò le tesi e ricerche di Francis Fukuyama, esponente della scuola statunitense (non del tutto “disinteressata”) di Palo Alto.

Alla prova di fatto e nell’ardimentosa, capillare regia di Claudio Longhi -esegeta di “Massa e Potere” che è il maggiore contributo teorico del Canetti sociologo e filosofo del sociale, e ventennali regie dal cuore  intermittente dal  grottesco all’ espressionista: da “La resistibile ascesa di Arturo Ui” a “Istruzioni per non morire in pace”-   “La commedia della vanità”  è un formidabile mix di opera-bourlesque e universo circense, pandemonio civile e pandemia delle anime in pena, al quale potremmo riservare tante delle considerazioni (elogiative) scritte di recente per “Germania anni 20” di Giancarlo Sepe, prodotto da La Comunità di Roma.

Per non ripeterci diremo, quindi e subito, che ad epicentro della ‘narrazione’  si erge  qui la distopia di  un cosmo immaginario (sotto forma di grande danza macabra) sottoposto ad una ‘nuova tirannide’ vietante al popolo di “contemplare” (compiacendosi e rabbrividendo)  la propria immagine riflessa. In questo limbo di annichilimento e palese incubazione  di un mai pronunciato Nazi.Fascimo, (“inversione apparente del narcisismo e dell’ego”) deflagreranno meccanismi di sopravvivenza, mercimoni di contrabbando per piccoli limbelli di specchi e postriboli ove sostare, fuggevolmente, dinanzi al proprio corpo duplicato “nella fatuità”.

Pertanto, e come – mi sovviene- preconizzavano le tenebre metafisiche dell’ Ecclesiaste: “vanità delle vanità, tutto è vano…”, debellate le quali, nessuno sarà più in grado di “generarsi quale individuo attraverso le proprie sembianze”. Mentre la propaganda del “noi  immateriale”, tipica dello Stato Etico, auspicherà l’atroce avvento di “un popolo a Soggetto Universale”.  Preciseremo inoltre che, ispirandosi dichiaratamente a “Lola Montes” di Max Ophuls, “Metropolis” di Fritz Lang-  ed alla ritrattistica deformante di Otto Dix- l’icastico spettacolo di Claudio Longhi (impresa produttiva ambiziosa e ad altissimo costo) si dipana in una cornice circense, “tendone ambulante e scalcagnato”, dominato da una sorta di Mackie Messer terrificante e minaccioso, tal Wenzel Wondrak (eccellente performance di Fausto Russo Alesi) che è, al contempo, pagliaccio, macabro menestrelllo e domatore di una pantomima espressionista declinata verso la tragica parodia.

Su patetiche, sgargianti attrazioni freaks e da baraccone, cifra espressiva della lunga kermesse canettiana (quasi quattro ore di rappresentazione) a noi pare, quindi, il  sensazionalismo miserrimo, lobotomizzato di una pervasiva chiassosità   riscattata dalla pregnanza, dall’agone di un audiovisivo clangore, che è spietata metafora di una “trappola” spettacolare, tentacolare, inestricabilmente ‘disumana’.

Coercizione (arrendevolezza) al totalitario preposto ad incutere paura: non del futuro, che non ci sarà (o è solo un’ipotesi), ma del più indecente presente.

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“La Commedia della Vanità” di Elias Canetti.  Traduzione: Bianca Zagari  Regia: Claudio Longhi

Assistente alla regia: Elia Dal Maso   Interpreti: Fausto Russo Alesi, Donatella Allegro, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Diana Manea, Eugenio Papalia, Aglaia Pappas, Franca Penone, Simone Tangolo, Jacopo Trebbi, Rocco Ancarola, Simone Baroni, Giorgia Iolanda Barsotti, Oreste Leone Campagner, Giulio Germano Cervi, Brigida Cesareo, Elena Natucci, Marica Nicolai, Nicoletta Nobile, Martina Tinnirello, Cristiana Tramparulo, Giulia Trivero, Massimo Vazzana

Musica: Renata Lacko (violino), SándorRadics   Scene: Guia Buzzi  Costumi: Gianluca Sbicca,  Luci: Vincenzo Bonaffini   Video: Riccardo Frati

Produzione: Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro Nazionale, Teatro di Roma, Fondazione Teatro della Toscana, LAC Lugano Arte e Cultura nell’ambito del progetto “Elias Canetti. Il secolo preso alla gola”.   Roma, Teatro Argentina- LAC – Lugano Arte e Cultura


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