L’uscita di scena (volontaria, imposta?) dell’ormai ex direttore generale del settore cinema Nicola Borrelli segna un’ulteriore tappa della e nella crisi del Ministero per la Cultura (Mic).
Dopo la vicenda che ha riguardato Chiara Sbarigia fino a qualche giorno fa alla testa dell’Istituto Luce-Cinecittà, quella di uno dei big dell’universo audiovisivo è il sintomo di un malessere ormai profondo e guaribile solo con una scossa riformatrice fortissima, purtroppo oggi neppure alle viste in lontananza.
Borrelli, infatti, è stato l’ultimo rappresentante di una filiera nel campo dell’immaginario che in Italia ha fatto il bello e il cattivo tempo, anche con riconosciuta professionalità. La genealogia dell’importante comparto del dicastero nasce da lontano, dal progenitore Carmelo Rocca, abile e onnipresente dirigente di rito democristiano e tuttavia amico ricambiato del cinema che un po’ lo contestava e un po’ gli voleva bene: perché l’attività culturale ha bisogno (giustamente, altrimenti vince il mercato peggiore) di sostegno pubblico. E giù per li rami, passando per Gaetano Blandini fino -appunto- a Borrelli.
Come spesso accade, ora il rischio è che, trovato il capro espiatorio, si pensi che il peggio sia passato e che il ministro Giuli possa andare avanti tra maldestre risposte alle interrogazioni parlamentari, sfottenti dinieghi a partecipare al Premio Strega, impegnate riflessioni sull’infosfera.
Ma il ministero effettivo, fatto di tantissime persone qualificate e mai davvero considerate (archeologhe e archeologi, storiche e storici dell’arte, ad esempio), nel frattempo veleggia con disinvoltura verso il baratro.
Lasciamo perdere l’era di Gennaro Sangiuliano, bersaglio fin troppo facile di critiche e di ironie. La realtà parla da sola: da una parte persiste una grave sine cura, dall’altro arrivano sotto i riflettori le più clamorose malefatte, dai conflitti di interessi, al caso del signore accusato di omicidio Francis Kaufman finanziato sotto falso nome per un film ipotetico grazie al cosiddetto tax credit. E proprio quest’ultima misura, figlia di un approccio liberista che viene da lontano (ivi compresa la legge dell’allora titolare del dicastero Dario Franceschini) teso a premiare i ricchi possibilmente sovranazionali e a penalizzare di fatto esordienti e opere non piegate al mercato richiede un nuovo inizio. Per evitare il collasso attuale.
Insomma, che almeno i casi (così diversi, ovviamente) Sbarigia e Borrelli siano uno schiaffo salutare. Il Mic ha urgente bisogno di un serio tagliando, che ne riveda impianto e linee-non linee.
E se avesse ragione Pupi Avati a riflettere sulla necessità di dare autonomia al cinema secondo un’ipotesi che si rintraccia con dovizia di particolari nella normativa francese evocata lo scorso martedì 1° luglio dal presidente dell’Associazione degli autori Francesco Martinotti all’inaugurazione della nuova sede dell’Anac? Si tratta di dare vita ad un apposito ente pubblico, indipendente e autonomo. Mentre il tax credit dovrebbe assumere le vesti di un equilibrato incentivo finanziario privo di ogni condizionalità; e nel contempo va rilanciato un rinnovato quadro di contributi selettivi dedicati alle componenti creative e coraggiose del sistema.
Il Mic ha bisogno di un radicale ripensamento, riaprendo il dialogo con le esperienze finite nella tagliola dei mancati finanziamenti che oggi piangono per crisi e chiusure imminenti.
Si riparta, dunque, dalla casella numero uno del gioco dell’oca.
Risulta più chiaro ora signore e signori delle destre al governo che le freccette della contro narrazione conservatrice evocata alla kermesse nostalgica di Atreju si sono girate verso di voi, a mo’ di un film demenziale hollywoodiano?
L’eterogenesi dei fini vive e lotta insieme a noi.
Il sovranismo in salsa italiota ha compiuto un vero disastro, miscelando passati ingloriosi e ossequi ai poteri contemporanei.