Con Guillaume Canet, Mélanie Laurent, Hugo Dillon, Aurore Broutin, Tom Hudson, Fabrizio Rongione.
Le Déluge-Gli ultimi giorni di Maria Antonietta narra gli ultimi momenti di vita di Luigi XVI e Maria Antonietta con uno sguardo sorprendentemente umano e profondo, che va ben oltre la semplice cronaca degli eventi storici, sulla scia dell’ultimo Rossellini, quello dei capolavori biografico-televisivi. Coprodotto da Paolo Sorrentino, di cui si sente una certa eco nella scelta dei personaggi iconici (ricordiamo i ritratti di Andreotti, Berlusconi e Lauro del grande cineasta premio Oscar) e nella forma dei tableaux vivants, più che un racconto della fine della monarchia francese, l’opera di Gianluca Jodice, suddivisa in tre capitoli (“Gli Dei”, “Gli uomini”, “I morti”) strettamente correlati tra di loro, si configura come una riflessione visiva e interiore sulla natura dell’essere umano, articolata intorno ad alcune direttrici fondamentali: il riconoscimento della dignità personale anche nel colpevole, la volontà di esplorare la sofferenza con delicatezza, e l’ineluttabilità, tanto giusta quanto spietata, del corso storico. Una delle scelte più significative del regista è quella di non trasformare Luigi XVI e Maria Antonietta in meri simboli ideologici. Né martiri, né mostri. Al contrario, entrambi vengono presentati nella loro vulnerabilità più autentica, come figure travolte da una realtà che non riescono più a governare. Il cineasta napoletano evita i giudizi già scritti dalla Storia e si concentra invece sui dettagli più umani: un gesto affettuoso verso un figlio, uno sguardo assente, una mano che trema. Questi elementi restituiscono la complessità di chi, pur avendo detenuto un potere immenso, si trova improvvisamente nudo davanti alla propria fine. Il rispetto che emerge è profondo, quasi compassionevole: non per assolvere, ma per comprendere l’individuo nella sua interezza, senza ridurlo alla sola somma delle sue colpe. In questo senso, ancora più toccante è il modo in cui viene rappresentato il dolore. La sofferenza non viene mai esibita in modo eccessivo o drammatico. È un sentimento silenzioso, che si insinua tra le pareti della prigione, nei ritmi lenti delle attese, nel tempo sospeso che precede l’inevitabile fine. Maria Antonietta non è più solo la sovrana frivola descritta da certa storiografia rivoluzionaria: è una donna distrutta, consapevole del destino che la attende, tuttavia aggrappata a una dignità residua, sufficiente ad assicurare ai piccoli figli ancora un attimo di serenità. Luigi XVI, invece, viene mostrato come un uomo comune, smarrito, che fatica a comprendere la portata del crollo che sta vivendo. Entrambi vivono il loro tragico epilogo non solo come condanna storica, ma come percorso personale, una via interiore che ridona loro una complessità umana spesso dimenticata nei grandi racconti del passato.
Un altro tema portante del film è la forza impetuosa della Storia, evocata già dal titolo stesso, Le Déluge, il diluvio, che rimanda a una distruzione totale e inarrestabile. La Rivoluzione non viene rappresentata come un evento eroico, ma come una marea che tutto spazza via: persone, ideologie, strutture sociali. Se da un lato essa ristabilisce una forma di giustizia contro l’eccesso di potere, dall’altro rivela un volto spietato, disinteressato ai destini individuali.
La ghigliottina, in questo senso, è più di uno strumento di morte: diventa l’emblema di un processo storico giusto ed inarrestabile, ma che avanza ignorando, inevitabilmente, ogni preghiera, ogni gesto di umanità. Il tutto in un trionfo di contraddizioni che sono soltanto dell’uomo, stretto in una morsa da cui è difficile fuggire. Attraverso primi piani intensi, silenzi sospesi e una splendida fotografia kubrickiana (del grande Daniele Ciprì) che indugia sui volti segnati, il regista ci mostra “persone” immerse nell’attesa, nella paura, nella speranza muta. È proprio in questa dimensione sospesa, tra destino collettivo e intimità individuale, tra responsabilità e comprensione, che l’opera di Jodice raggiunge il suo nucleo più autentico. La sua arte non si limita a ricostruire una fine tragica, ma la trasforma in una chiave di lettura essenziale per comprendere fino in fondo la precaria e debole condizione di tutti. Con uno sguardo lucido e compassionevole, il film ci ricorda che ignorare le sfumature dell’animo umano, anche nei momenti di colpa o di rovina, significa rinunciare ad accostarci davvero a ciò che siamo. E in un tempo che spesso semplifica e polarizza, un’opera così profonda è non solo preziosa ma necessaria.