Condividiamo la riflessione pubblicata nel suo profilo instagram da Susanna Rugghia, giornalista freelance e finalista del Premio Roberto Morrione nel 2023, dopo la notizia del femminicidio di Martina Carbonaro, studentessa di 14 anni di Afragola, uccisa dal suo ex-fidanzato Alessio Tucci. Dall’inizio dell’anno, sono 25 le donne vittime di femminicidio.
Come ogni donna, come tante compagne e sorelle, sono stata innumerevoli volte ascoltatrice, custode e testimone delle violenze e degli abusi di altre donne, sorelle e compagne. Chi vive la violenza di genere non può temporeggiare, ci si abitua all’azione, a mettere in pratica. Lo sappiamo bene, lo sappiamo sulla nostra pelle e sui nostri corpi, che il pensiero senza prassi può uccidere due volte. E non in senso figurato. Impariamo presto che non c’è tempo, non c’è tempo da perdere. Ci si assume il rischio e la responsabilità di attivarsi, nel pubblico così come nel privato, nel collettivo e nel personale, sul lavoro e nelle amicizie.
Allora stesso modo, quando si parla di violenza di genere, di abuso e di oppressione patriarcale, c’è la necessità di ricostruirlo quel tempo, di spazializzarlo, di immaginarlo daccapo, di riappropriarsene, di crearlo quel tempo, se necessario. C’è urgenza.
Le donne le sorelle e le compagne che sono state innumerevoli volte ascoltatrici, custodi, testimoni della violenza sono abituate ad agire, a mettere in gioco i loro corpi, a mettere a disposizione l’intelligenza, la fantasia e l’ascolto per creare prassi.
In questi giorni leggo e ascolto una manciata di maschi, nel migliore dei casi spauriti, sconvolti, schifati, nella peggiore indifferenti e complici.
Alcuni parlano di mancanza di spazio di confronto e di decostruzione della propria maschilità. Questi spazi non esisteranno finché non ci sarà la stessa urgenza, la stessa necessità, la stessa disponibilità a mettere in gioco se stessi, i propri retaggi, le proprie differenze e i propri privilegi, collettivamente e in uno spazio vero.
Eppure la sofferenza è tanta, perché il maschile è in crisi da un pezzo e i modelli che abbiamo introiettato sono dolorosi per tutt*.
Ingenuamente, allora, vi chiedo: che cosa aspettate ancora? Chi ha gli strumenti, chi è abituato alla dimensione politica, chi attraversa gli spazi collettivi e assembleari, non percepisce di avere una responsabilità ancora più grande?
In questi giorni, con grande frustrazione, ho provato sentimenti e una rabbia quasi impolitica. Personale, densa di senso di colpa e di impotenza. Mi è capitato molte altre volte, suggerendo, incitando, spingendo gli uomini attorno a me a costruire delle alternative. Nel personale e soprattutto nel collettivo.
Sono anni che sento gli uomini vicini a me parlare di riunirsi, di necessità di spazi di autocoscienza, di vera costruzione di una alternativa di maschilità che non si riduca a due caroselli su Instagram. Succede sempre in concomitanza con i femminicidi più efferati. Per senso di colpa e di vergogna. Ma poi? Poi non succede nulla di concreto. Perché per i maschi quella vergogna non è mai più grande della vergogna di decostruirsi in spazi veri assieme ad altri maschi.
Datevi una svegliata.
E ovviamente parlo di maschi sensibili, acculturati, intelligenti, politicamente e socialmente attivi. Ricordatevi che se avete fatto dei passi avanti è grazie a delle donne e compagne che vi si sono “prese in carico”.
Ora avete la responsabilità di farvi carico voi degli altri uomini. Di sporcarvi le mani come da secoli le donne e le libere soggettività fanno.