80 anni dalla Liberazione, verso il 25 aprile 2025

Mi chiamo Nadine. Storia del massacro delle detenute nel carcere di Goma

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“Qui c’era la cella di Nyaba, che ha partorito una coppia di gemelli. Qui invece dormiva la madre di quella bambina, ve la ricordate? Quella che soffriva di epilessia… Zawadi… questo maglione è suo. E qui c’era mamma Ingo, anche lei è sopravvissuta…”.
Nadine cammina tra le macerie di quella che è stata la sua cella. Si inoltra nello scheletro della prigione di Goma, poco più di un mese dopo il massacro a cui è riuscita a sopravvivere “solo grazie a Dio”, dice mentre raccoglie degli stracci appartenuti alle sue compagne, che riconosce in mezzo al fango e alla cenere. Gli occhi bassi, le mani nervose, parla sottovoce Nadine mentre ricorda l’orrore. Ha accettato di tornare insieme a noi, in quell’edificio pieno di fantasmi di cui resta solo lo scheletro, per raccontare la sua storia per la RAI, un servizio del settimanale del TG1 TV7, in onda questa sera in seconda serata. Nadine, Pascaline e Mwamini, attraversano insieme il cancello ed entrano nella sezione femminile del carcere di Goma, che il 27 gennaio, nel pieno della battaglia seguita all’attacco della città da parte dei ribellli dell’M23, si è trasformato in un inferno. Il reparto femminile assaltato dai detenuti maschi, che hanno violentato e ucciso oltre cento donne e hanno appiccato l’incendio. Loro tre sono tra le poche sopravvissute. Quelle che seguono sono le loro storie. “Mi chiamo Nadine, sono stata imprigionata qui nel carcere di Munzenze, a causa di un debito di 100.000 franchi che non riuscivo a pagare. Non sono riuscita a pagare nemmeno gli interessi. I soldi sono diventati tantissimi e mi hanno messo in carcere in attesa del processo. Ma mi hanno trattenuta per più di sei mesi senza che venissi convocata per il giudizio, e la mia vita qui era miserabile. Dormivo nella stanza delle preghiere perché non avevo soldi per pagarmi un posto in cella.
La notte del 27 gennaio, abbiamo sentito la guerra arrivare. I rumori dei proiettili che sparavano qua fuori, ma qui dentro I soldati non sono entrati. Sono invece arrivati gli uomini da Safina, la sezione maschile del carcere. Sono venuti per violentare e uccidere noi donne e a fare altre cattiverie. ”.
Nadine, Pascaline e Mwamini si fermano nel piazzale della sezione. Di fronte ci sono le celle. I muri anneriti dalle fiamme. A terra gli stracci che sono appartenuti alle donne detenute che hanno vissuto e sono morte tra queste mura.
“Abbiamo paura ad andare avanti, dice Mwamini, non ci era permesso di muoverci liberamente quando eravamo rinchiuse qui. La vita qui era davvero difficile. Trovare da mangiare era difficile e procurarsi l’acqua era un problema. Solo il lunedì riuscivamo a procurarci mezzo chilo di fagioli e mezzo chilo di farina di manioca e questo era il nostro miserabile cibo di prigionieri.” Anche lei come le sue compagne è stata arrestata e detenuta nel carcere di Munzenze per debiti che non riusciva a pagare. Poi ricorda la notte del 26 gennaio.
“Quella domenica sera del 26 gennaio, stavamo per andare a dormire, come al solito. Sapevamo che c’era tensione all’esterno a causa della guerra. Intorno alle dieci di sera, abbiamo iniziato a sentire colpi di arma da fuoco qui, fuori dalle mura della prigione. Continuavano a sparare anche contro la prigione e quando è arrivata la mezzanotte, abbiamo iniziato a sentire le urla di alcuni prigionieri che stavano scappando dalla sezione maschile. I poliziotti hanno iniziato a sparare. Poco dopo li sentivamo correre sopra al tetto della nostra sezione.

Qualcuno diceva che gli uomini stavano venendo ad aprire le porte per farci scappare, ma poi abbiamo scoperto che volevano ben altro…

Pascaline ha un’aria mite, non alza mai lo sguardo e si tormenta le dita: “Abbiamo iniziato a vedere il fumo, poi abbiamo sentito i colpi di arma da fuoco. Gli uomini hanno scavalcato il muro e le celle erano già piene del gas soffocante dei lacrimogeni. Alcune donne stavano morendo per il fumo e per il fuoco che iniziava a divampare, ma gli uomini le hanno prese e le hanno spogliate per violentarle. Il fuoco continuava ad aumentare perché venivano lanciati molti gas lacrimogeni, che alimentavano l’incendio. Anch’io sono stata violentata da tre uomini. Ancora oggi non riesco a sopportarlo e ricordo tutte le donne che sono morte qui.”
Ci inoltriamo nel buio delle celle, tra gli scheletri di ferro dei letti a castello. La stanza delle preghiere dove dormivano molte di loro, è illuminata solo a tratti dal sole che entra dagli squarci nel tetto che era fatto di legno e lenzuola ed è stato divorato dalle fiamme.
“Non ricordo molto perchè sono svenuta per il calore dell’incendio – mi racconta Nadine. Due uomini mi hanno portata dietro la cisterna e mi hanno violentata. Due uomini. È stato orribile. Ho visto altre donne che venivano violentate da molti uomini, ma io sono stata violentata da due uomini. Ho visto molte persone morire a causa del fumo, della mancanza di ossigeno, dei gas lacrimogeni lanciati dalla polizia carceraria… Vedevamo le altre cadere e morire, alcune asfissiate. Noi eravamo nascoste e quando gli uomini hanno iniziato a entrare, abbiamo chiesto a una delle donne ufficiali della prigione, se poteva aprire per farci fuggire, ma lei ha rifiutato.”

Mwamini raccoglie un libro bruciato, è un libro per bambini: “C’erano madri imprigionate con i loro figli. C’erano bambini di un anno che sono morti con le loro madri. Si è salvata solo una donna di nome Nyabade che era imprigionata con tre figli. Le donne in questa prigione erano 167, i bambini erano 28. Le donne che sono fuggite all’inizio erano 15, noi che siamo uscite più tardi eravamo 18. Quindi, immaginando 18 più 15… non siamo molte a essere sopravvissute.”

La rabbia dei detenuti esplode perché sapevano che, a causa della guerra, volevano trasferirli a Kinshasa. E la rabbia si è trasformata rapidamente in una furia bestiale, mentre fuori infuriava la battaglia.
Mwamini ricorda: “Eravamo in trappola in mezzo al fumo e al fuoco. Alcune donne sono riuscite a scappare attraverso il buco che era stato aperto dagli uomini. Ma quando abbiamo provato noi, il tetto incendiato ha iniziato a caderci addosso e noi non potevamo più passare. Alcune di noi sono riuscite a fuggire ma altre sono rimaste intrappolate. Abbiamo continuato a versarci l’acqua addosso, sostenute da 4 uomini, i soli che ci stavano aiutando. Loro non hanno violentato nessuno. Ci aiutavano a trovare l’acqua. Verso le 10 del mattino, quei 4 uomini ci hanno detto che la porta era aperta. Abbiamo iniziato a spegnere il fuoco a terra per non bruciarci i piedi e per fortuna siamo riuscite ad uscire dalla prigione. Ma solo tre di quei quattro uomini sono riusciti a uscire dalla prigione in fiamme.”

Goma è il capoluogo del Nord Kivu, la regione più ricca di minerali preziosi del Congo. Una ricchezza che la popolazione non ha mai visto e che è la ragione delle guerre e dei massacri che questa terra ha conosciuto negli ultimi trent’anni. Nadine, Pascaline e Mwamini vengono da famiglie povere. Sono stati arrestati anche I loro familiari quando non sono più riuscite a saldare I loro debiti.

“Sono devastata da quanto è successo. Sono andata al centro sanitario per fare delle analisi e mi hanno detto che mi hanno contaminato con delle infezioni che mi danno forti dolori al basso ventre – racconta Pascaline. Mi hanno detto di andare in un ospedale per ulteriori esami, in modo da sapere qual è il mio stato… Ma non ho trovato ancora la forza per andarci…

Chiedo a Nadine come si sente oggi. “Ora sto bene. Ho le medicine che mi servono, ma purtroppo ho fatto un test di gravidanza ed è positivo. Dopo tutto questo orrore ho fatto la mia scelta, partorirò il bambino.”
Le Nazioni Unitebstannomindagandoneulmmassacro in con un’indagine molto riservata, ma Mwamini ha un’idea molto chiara di chi sia responsabile di quanto accaduto: “Tutto questo è stato causato dall’incapacità del governo. Avrebbero dovuto venire a salvarci quando hanno visto gli stupri e l’incendio, invece ci hanno intrappolate, senza farci uscire.
Fuori c’era la guerra, ma ci hanno lasciate lá dentro a morire.”


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