La libertà nel mirino: il processo a Julian Assange

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Il volume dell’ex relatore speciale sulla tortura delle Nazioni Unite Nils Melzer (Il processo a Julian Assange-storia di una persecuzione, Fazi Editore, Roma, 2023, pp. 467, con Oliver Kobold, traduzione di Alessandro de Lachenal e Viola Savaglio) è un testo di straordinario valore. Si tratta, infatti, di una testimonianza accuratissima sul caso del fondatore di WikiLeaks, frutto di una meticolosa ricerca svoltain veste ufficiale da una personalità eminente, ora direttore presso il Comitato internazionale della Croce Rossa e professore negli atenei di Ginevra e Glasgow.

La prefazione di Stefania Maurizi, autrice dell’altro fondamentale libro in materia (Il potere segreto (2021), riassume con preziosa sintesi quella che lo studio degli atti processuali dimostra essere una vera e propria persecuzione. Quest’ultima inizia nel 2010, all’apice del successo della struttura di contro-informazione nata come un’agenzia non profit sorretta da un impegnato e coraggioso volontariato. Un caso di scuola, sia per le modalità di scrittura criptata disseminata a pezzetti in una girandola di computer, sia per la capacità di operare in sinergia con diverse importanti testate internazionali, con la massima attenzione a non mettere a rischio vite umane.

Se è così, si potrebbe obiettare, perché tanta cinica determinazione contro una figura creativa e indomita? A rigore, sarebbe legittimo proporre un premio Pulitzer e non certamente la prospettiva di morire in un penitenziario nordamericano insieme alla peggiore criminalità.

Ecco. Il racconto di Melzer ti prende per mano e ti accompagna lungo le strade della manipolazione e del sopruso, della scelta a tavolino del Nemico, di un satanico rovesciamento delle responsabilità. In tale macchinazione sono coinvolti paesi considerati esempi di democrazia: Svezia, Australia, Gran Bretagna e – in regia- gli Stati Uniti.

La scrittura di Melzer è impetuosa e si sviluppa, secondo una efficace ibridazione tra il genere legal thriller e la scientifica ricostruzione storica, tra le varie tappe della menzogna di regime.

Melzer chiarisce che inizialmente, quando nella veste istituzionale del Palazzo di Vetro aveva aperto il dossier, era pure lui prevenuto. Quel signore gli appariva strano, antipatico, narciso e, probabilmente, una spia.

L’inizio del percorso cognitivo, dunque, non è particolarmente favorevole alle ragioni di Assange e del collegio di difesa, in cui operava la futura moglie, l’avvocata Stella Moris.

«…Più mi occupavo del caso, più mi rendevo conto che c’era in gioco molto di più del solo destino personale di Assange. Era difficile negare che, con la criminalizzazione delle pubblicazioni di Assange, sarebbe stato stabilito un precedente pericoloso per il giornalismo d’inchiesta in quanto tale…» (p.55). Si dipana, quindi, via via la matassa di un tragico procedimento-farsa, nel quale le stesse imputazioni gravissime – le violazioni dell’Espionage Act statunitense- sono state centellinate ad arte da un’accusa inizialmente limitata ad un reato di hackeraggio. Basti scorrere i vari superseding indictment, perchiamarli con il loro burocratico nome. L’intenzione sottesa a simile inquietante metodo era di impedire il ricorso al primo emendamento della Costituzione di Washington, quello che tutela sacralmente il diritto di cronaca. E che già salvò ai tempi dei Pentagon Papers sulla guerra del Vietnam Daniel Ellsberg, nonché New York Times e Washington Post che avevano pubblicato le 7.000 pagine riservate inviate loro dall’analista militare.

Insomma, quando partì l’inquisizione non si poteva avere contezza del seguito. Un’inchiesta matrioska. Si aggiunse quasi subito l’accusa della giustizia svedese per infamanti violenze sessuali, rivelatesi infondate. Tra l’altro, WikiLeaks aveva cercato a Stoccolma di insediarsi con la fondata speranza di un compiuto riconoscimento della redazione giornalistica.

Non bastava quel girone infernale. Doveva arrivare la botta inglese. La forzata permanenza nell’Ambasciata dell’Ecuador a Londra, sorvegliata nei dettagli dai servizi segreti di Sua Maestà con dispendio dei denari dei contribuenti britannici, finì quando il nuovo presidente di Quito Moreno revocò l’asilo politico ad Assange. La polizia trasferì di forza il giornalista australiano (si registra, a proposito, una colpevole latitanza del paese di origine, malgrado le promesse in campagna elettorale dell’attuale premier Albanese) nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh, chiamata la Guantanamo inglese.

Lì l’imputato è tuttora recluso, in attesa dell’accettazione (o meno) della richiesta di appello contro la decisione della magistratura di accogliere la richiesta di estradizione negli Stati Uniti, dove incombe una incredibile condanna a 175 anni di prigionia.

Melzer, con inaudite difficoltà, è riuscito a vedere Assange nella fortezza in cui è recluso e ne ha tratto un’impressione terribile. Siamo di fronte ad una forma di tortura, con enormi danni psicologici oltre che fisici. Veniva confermata la perizia medica svolta dalla specializzatissima Sondra Crosby, dottoressa e docente alla Facoltà di medicina di Boston: le sofferenze inflitte al detenuto sono una violazione della Convenzione contro la tortura del 1984. articoli 1 e 16. Ugualmente recitava il rapporto del Working Group on Arbitrary Detention. Tortura, basta la parola, per capire l’angosciante situazione di una persona con rischi suicidari, appesa al filo terribile della repressione – senza processo di merito- di governi che attaccano un innocente per togliere credibilità all’accusatore.

E sì, gli accusatori avevano strappato il velo dei segreti inconfessabili delle guerre in Iraq e in Afghanistan o delle centinaia di migliaia diimbarazzanti file svelati.

Ma, con la sua opera Assange – conclude Melzer- ha acceso una candela. Guai a permettere che si spenga. La sconfitta ricadrebbe sull’esercizio delle libertà.


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