Caro Signor G, ma io mi sento italiano? 

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Caro Signor G,

te ne sei andato vent’anni fa e, lasciatelo dire, non dovevi farci questo scherzo! Mi sono domandato spesso, infatti, cosa avresti detto, scritto e portato in scena oggi se fossi stato ancora fra noi. Mi sono chiesto cosa ne avresti pensato di una società sempre più malvagia, incattivita, feroce, nella quale non c’è spazio per alcun principio di umanità e gli ultimi sono sempre più ultimi e abbandonati a se stessi. Pensa che nei giorni scorsi, nella tua Milano, sette ragazzi erano evasi dal carcere minorile che porta il nome cel padre del pensiero giuridico moderno, colui che si batteva contro la pena di morte già nel Settecento, sostenendo che le pene dovessero essere commisurate ai delitti commessi. Pensa, caro Gaber, che in questo Paese c’è stato subito chi ha chiesto pene esemplari, più agenti, più severità, l’apertura delle porte del carcere “vero” per i reprobi e tutto l’armamentario della peggior destra che oggi è egemone alle nostre latitudini. E anche ora che sono tornati dietro le sbarre, la furia degli odiatori nei loro confronti non si è certo attenuata; anzi, se possibile, è cresciuta. Tu sostenevi di non temere Berlusconi in sé ma il Berlusconi che alligna in ciascuno di noi. Sappi che finiremo quasi col rimpiangerai, anche se lotta ancora insieme a noi e arreca danni in compagnia di due giovani rampanti che sulla faccia feroce nei confronti dei più fragili hanno edificato la propria carriera politica.

Caro Signor G, non votavi da tanti anni, eccezion fatta per la tua Ombretta, perché sostenevi che la politica fosse marcia, e qualche ragione va detto che ce l’avevi già a suo tempo. Mi interrogo su cosa scriveresti oggi, su come riadatteresti il tuo celebre “Dialogo fra un impegnato e un non so” o il tuo monologo su destra e sinistra, anche se, per onestà intellettuale, bisogna ammettere che la destra si vede eccome: è la sinistra che non sappiamo più dove sia andata a finire!

Caro Signor G, pensa che viviamo in un’Italia in cui si è smarrito ogni principio di umanità, in cui un ragazzo in fuga dalla miseria e dalla guerra trova, il più delle volte, come unico approdo la galera, dopo aver trascorso giorni e giorni in strada, cadendo preda di una società che non accoglie, non integra, non include e disprezza chiunque sia destinato, secondo il pensiero corrente, a finire in discarica. Pensa che ormai si accostano persino gli esseri umani alla discarica, senza che nessuno si indigni più di tanto. Un tempo accadeva nel regime di Pinochet, adesso anche da noi: abbiamo fatto progressi!

Tu ci hai insegnato la ribellione, il coraggio, l’irriverenza, la spontaneità, la contestazione costante e senza sconti nei confronti del potere, lo spirito critico e l’impegno civico senza requie: oggi, da queste parti, saresti considerato un folle o, forse, addirittura un “putiniano”.

Caro Signor G, anneghiamo nel conformismo, nella brevimiranza, nella pochezza morale e nel nulla di una classe dirigente che straparla di merito ma che, se il merito fosse davvero valorizzato, sarebbe spazzata via seduta stante. E la sinistra, contro cui ti sbagliavi con gusto quando ancora ce n’era una, per quanto ammaccata, fidati, è andata oltre il Berlusconi in me: ormai ci domandiamo se sia sopravvissuto anche un solo valore di quelli che dovrebbero caratterizzarla, e la risposta che ci viene in mente è che, se ancora ne è rimasto qualche piccolo esempio,  cio avvenga all’insaputa dei protagonisti.

Caro Gaber, in vent’anni ci siamo giocati la dignità, la speranza, la civiltà giuridica, ogni idea di fratellanza, la coscienza non sappiamo più neanche dove stia di casa e, di fronte ai migranti che annegano in mare, l’unica cosa che sappiamo fare è augurare buon pasto ai pesci. Comincio a pensare che, per come siamo diventati, ti faremmo talmente schifo che neanche ci degneresti più di uno sguardo; forse ti occuperesti d’altro, persino tu, che alla battaglia politica e civile, nonostante tutto, non hai mai voluto rinunciare.

Caro Signor G, quanto ci manchi! Perché continuo a pensare, al tempo stesso, che forse no, non rimarresti in silenzio; ti incazzeresti eccome e ce lo faresti sapere a modo tuo, con graffiante ironia, con forza d’animo, con lo stupore bambino che caratterizzava il tuo testo-canzone e la tua arte senza eguali.

Cantavi, col tuo spirito senza pari: “Io non mi sento italiano / ma per fortuna o purtroppo lo sono”. Caro Signor G, senza dubbio sono italiano. Non so se sia una fortuna o meno, ma di sicuro, di fronte a determinate scelte del nostro governo e dei miei connazionali, faccio fatica a esserne orgoglioso. Talvolta, ti confesso che vorrei trovarmi altrove. Sono certo che comprenda la mia disillusione.

P.S. Dieci anni fa ci diceva addio, all’età di centotre anni, Rita Levi Montalcini, straordinaria interprete della scienza e della medicina. Quest’articolo è dedicato alla sua memoria e alla sua grandezza.


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