Veronica Raimo, Niente di vero: verità creative che rendono tollerabile la vita

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Niente di vero” di Veronica Raimo, Einaudi 2022 è risultato vincitore del Premio Strega Giovani 2022, del Premio Viareggio – Repaci ed è stato incluso tra i sette finalisti del Premio Strega. Libro rivelazione che ha decretato il successo di Veronica Raimo, scrittrice quarantenne che ha già al suo attivo la pubblicazione di altri tre romanzi, di un libro di poesie, di una sceneggiatura e di traduzioni di importanti scrittori. E’ un romanzo di circa centosessanta pagine che scorrono rapidamente, divertenti, caustiche, ma capaci anche di toccare molti temi intimi, porre interrogativi e dubbi. Si tratta di un memoir, che ripercorre la vita dell’ autrice dall’infanzia ad oggi e dove ciò che importa più che la verità di ciò che è accaduto è ciò che ricorda la protagonista. Come racconta l’autrice stessa in un’intervista, per questo testo ha avuto due riferimenti importanti: Lessico famigliare di Natalia Ginzburg e la scrittura di Joan Didion. Natalia Ginzburg premette al suo libro un’ “Avvertenza” in cui dice che luoghi, fatti e persone sono reali, ma specifica anche: “Ho scritto soltanto quello che ricordavo. Perciò, se si legge questo libro come una cronaca, si obietterà che presenta infinite lacune. Benché tratto dalla realtà, penso che si debba leggere come se fosse un romanzo : e cioè senza chiedergli nulla di più, né di meno, di quello che un romanzo può dare”. Per quanto riguarda Joan Didion, Raimo mette in evidenza che la scrittrice ha sempre sostenuto il suo personale rapporto con i ricordi e di non saper spesso distinguere tra ciò che è accaduto e ciò che sarebbe potuto succedere, ma questo non lo ritiene importante rispetto ai suoi fini, che sono quelli narrativi e sono il territorio in cui gli scrittori si muovono.

Niente di vero” ha avuto un successo intergenerazionale grazie anche al meccanismo dell’identificazione che può sempre funzionare nel racconto di una storia famigliare: una madre iperprotettiva il cui “unico principio morale che riconosce è la propria ansia”, un padre irascibile e con la fissazione dell’igiene e della costruzione di tramezzi, un fratello genio precoce con cui confrontarsi, un nonno adorabile con cui ha avuto una relazione fondamentale e altre vicende narrate talvolta sul filo del paradosso. Del resto “Siamo al paradosso” era una delle frasi del lessico famigliare da parte del padre. Coinvolgono nella lettura il registro tragicomico, l’intento e il tono dissacrante dell’autrice e se anche questo è probabilmente identificatorio per i giovani, è motivo di riflessione per chi appartiene ad altre generazioni, per chi ha dato risposte diverse alle vicende esistenziali che la protagonista, come tutti, si trova ad affrontare. Insieme alla vicenda famigliare, l’autrice tocca molti temi importanti come il rapporto con la madre e con la maternità, la sessualità, l’accettazione della propria identità, l’idea e il senso della memoria e della scrittura e solleva molte scomode riflessioni che riemergono anche dopo la lettura.

Raimo ha dichiarato di aver utilizzato per questo libro testi scritti in periodi diversi e di averli poi montati insieme, cosa che si avverte senza però che dia fastidio. Non vi è dunque una forte cornice, ma un andamento genericamente cronologico, più evidente nella prima parte, tuttavia la narrazione procede anche per temi sui quali si ritorna attraverso episodi diversi. Uno dei temi che attraversano il romanzo è quello del senso di solitudine e di inadeguatezza che la protagonista vive già dall’infanzia nell’esperienza emblematica della stitichezza, “il suo apprendistato alla frustrazione”. Corpo e cervello che danno impulsi in direzioni opposte, un conflitto costante tra abbandonare qualcosa e cercare di riprenderlo: la sua maledizione della terra di mezzo. E nei momenti di solitudine e di crisi tende a leggere tutta la sua vita in questa chiave. Aggirare le proprie incapacità attraverso “verità creative” diventa un modo di affrontare la vita, convincendosi che non sta mentendo, ma che esiste una versione della sua vita in cui c’è un realtà diversa e le circostanze a volte le vanno incontro: “nella mia esperienza le menzogne hanno l’intrinseca qualità di generare coerenza, nessi causali, inferenze …

Questa è la mia teoria: basta lasciarlo lavorare in pace e il diavolo fa sia le pentole che i coperchi”. Nella parte finale del libro interpreta anche i comportamenti della sua famiglia come caratterizzati dalla manipolazione della realtà, un modo anche quello di “edificare la realtà”, di rendere accettabile la vita. E lo stesso vale per i ricordi, che riteniamo qualcosa di intimo e prezioso, ma che non sono esenti dalla manipolazione: “La maggior parte dei ricordi ci abbandona senza che nemmeno ce ne accorgiamo; per quanto riguarda i restanti siamo noi a rifilarli di nascosto, a spacciarli in giro, a promuoverli con zelo, venditori porta a porta, imbonitori, in cerca di qualcuno da abbindolare che si abboni alla nostra storia. Scontata, a metà prezzo. La memoria per me è come il gioco dei dadi che facevo da piccola, si tratta solo di decidere se sia inutile o truccato.” In questo corto circuito tra realtà, “verità creative”, immaginazione e menzogna si pone anche il punto di passaggio e di approdo alla scrittura. L’autrice cerca di disinnescare certe retoriche rispetto a vari argomenti tra cui la lettura e la scrittura, gli strumenti dello scrittore. Racconta come la lettura per lei da bambina sia stata legata alla noia, all’impossibilità per lei e suo fratello di svolgere altre attività, avendo genitori molto apprensivi. Solo in seguito c’è stata la scoperta dei libri e la passione attraverso il rapporto con gli amici e in particolare, il parlare più che dei libri, dei personaggi, delle storie con l’amica del cuore, Cecilia.

Raimo vuole dissacrare anche la retorica sul sogno di diventare scrittrice fin da bambina. “Da piccola volevo diventare la rockstar Veronica, poi volevo fare la contadina, e a un certo punto, visto il successo dei miei dipinti rubati, ho ventilato l’ipotesi di reinventarmi come artista, almeno mia zia sarebbe stata contenta”. Le sue prime esperienze di scrittura furono il diario inventato scritto non per fissare i ricordi, ma per depistare la madre, offrendole un’immagine di lei “ a suo uso e consumo”.Poi c’erano state le lettere scambiate con Cecilia, mettendole sotto un sasso nel parco e in particolare i pomeriggi del quarto liceo, quando l’amica era andata a studiare all’estero, e lei aveva cominciato a parlare con Amory Blaine, il protagonista di Di qua del Paradiso di Fitzgerald. Soprattutto del quarto anno di liceo sono importanti le lettere scambiate con Cecilia, in cui reinventa l’intero anno scolastico: quelle lettere rappresentano in qualche modo il suo primo romanzo.

Raimo rivendica il suo volersi collocare nella posizione di non dover dimostrare niente a nessuno e per questo il suo non vuole essere un classico libro di formazione in cui il/la protagonista parte da una speranza, un sogno e dopo varie vicende e prove arriva a una trasformazione, a una compiutezza della sua identità. Preferisce rappresentare della protagonista l’indeterminatezza, le contraddizioni, i dubbi, diffida dal binarismo realizzazione – fallimento e rivendica la possibilità di destreggiarsi nella vita magari attraverso vari espedienti e soprattutto ritiene importanti le molte sfumature di ciascuno e la possibilità di cambiare. Per quanto riguarda la sua idea di scrittura in conclusione del romanzo cita la frase di un personaggio: “Una storia è un concetto ambiguo”. Accoglie l’ipotesi che usa forse i libri per schermarsi, ma la sua dichiarazione finale è icastica: “Per me scrivere è essenzialmente questo. Scrivo cose ambigue e frustranti. Anche le poche favole che scrivevo da bambina erano così. C’era una spiga che era cresciuta in un bosco. “E come è successo’ ” mi chiedeva mio nonno. “Non ne ho idea”. La storia finiva lì. A mio nonno stava bene. A me pure”


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