La “Parola” alla “Giustizia”: il Festival della Filosofia di Modena

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Un festival che si definisca tale deve possedere le caratteristiche di un evento organizzato per la comunità in cui si svolge, come è accaduto con il Festival della Filosofia di Modena. L’edizione 2022 lo ha confermato: quasi duecentomila le presenze distribuite su Modena, Carpi e Sassuolo, dove in contemporanea si sono svolti gli eventi dedicati al tema della giustizia dal 16 al 18 settembre 2022. Mai come ora vi è necessità di parlarne. “Sfere di giustizia” giunto alla sua ventiduesima edizione. Il programma comprendeva circa 200 appuntamenti gratuiti, suddivisi tra lezioni magistrali, oltre trenta mostre, spettacoli teatrali, letture, attività per i giovani, pranzi e cene filosofiche con menù tematici, 53 lezioni magistrali condotte da personalità che si esprimono attraverso il pensiero filosofico e sanno affrontare argomenti che compongono la visione di una società attraversata da contraddizioni, dove la parola giustizia viene declinata nelle sue più svariate forme: giustizia sociale là dove sia necessario operare a livello materiale e spirituale affinché sia ricostruito un tessuto sociale disgregato e fragile.

Le varie implicazioni legate al diritto, alla difesa di una società civile e inclusiva. Le relazioni tra i popoli sollecitano interrogativi sul rapporto tra la pace e la guerra: un tema che oltre ad avere implicazioni filosofiche e politiche, riguarda aspetti teologici. La giustizia si connette con il discorso sulla legge e sulla pena.

concerto dell’associazione Ologramma

Uno sguardo al passato in cui autorevoli studiosi hanno affrontato la giustizia amministrata nel passato e la sua ricaduta nella storia del pensiero occidentale. L’affluenza record con piazze gremite fino all’inverosimile stanno a dimostrare quanto sia importante parlare di argomenti che la politica sembra aver abdicato. E l’assenza al festival di esponenti della politica che di prassi partecipano in altri festival, a cui siamo abituati, è uno dei tanti valori aggiunti di questa importante manifestazione che vedeva riuniti a Modena la presenza , tra gli altri, di Massimo Cacciari (componente del Comitato scientifico del festival), Umberto Galimberti, Don Luigi Ciotti, Maurizio Ferraris, Salvatore Natoli, Massimo Recalcati, Michela Marzano, Stefano Zamagni, Roberto Saviano, Gianrico Carofiglio, Gad Lerner, Stefano Massini.

Il comitato scientifico del Festival è composto da Marc Augé École des Hautes Études en Sciences Sociales Paris (Francia), Michelina Borsari già direttore scientifico del Festival di Filosofia, Massimo Cacciari Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, Barbara Carnevali École des Hautes Études en Sciences Sociales Paris (Francia).

Il sindaco di Modena, Giancarlo Muzzarelli, nella conferenza stampa di chiusura ha sintetizzato così il successo ottenuto (insieme a lui era presente il direttore scientifico del Festival Daniele Francesconi): «Ho sentito crescere l’energia del festival sin dai giorni precedenti come pane che pian piano lievita: un volta pronto è stato distribuito a tutti nel segno della “giustizia” e ha sfamato la voglia di confronto e discussione. Lo spirito del festival e la sua magia hanno centrato l’obiettivo ancora una volta: tanti giovani hanno riempito le piazze appassionandosi a temi difficili come quello dei diritti e inoltre si è consolidato il turismo internazionale. Ma soprattutto Modena, Carpi, Sassuolo, hanno ripreso il ritmo di città aperte, luoghi di contaminazione di eventi e parole: ora dobbiamo raccogliere ciò che abbiamo ascoltato e alzare lo sguardo verso il futuro per trasformare queste riflessioni in azioni “giuste”. Azioni che sono state rivolte al pubblico e recepite con entusiasmo e convinta adesione.

Un ascolto partecipe che si è manifestato concretamente ad ogni dibattito che si svolgeva nelle piazze e nei luoghi storici di Modena, Carpi e Sassuolo, attraversava la città e si diffondeva per una sorta di contaminazione mista tra desiderio di conoscenza ed entusiasmo nel partecipare ad una festa. Così come deve essere nella sua natura un festival. In connessione con il territorio e le sue istituzioni deputate ad accogliere eventi culturali, quali musei, biblioteche, chiese aperte a spettacoli teatrali, e servizi per la cittadinanza come i ristoranti. Un senso collettivo di appartenenza che dimostra un vero radicamento nel tessuto urbano delle tre sedi. Per agevolare il lavoro dei giornalisti accreditati ogni giorno venivano organizzate delle conferenze stampa con alcuni dei relatori. Un programma suddiviso per aree tematiche, tra le quali giustizia, merito, diseguaglianza, colpa e pena, il diritto e le sue forme, processi e riparazione, pace e guerra. Una delle lezioni magistrali più seguite (quasi uno sfogo per la sua veemenza e passione oratoria) è stata sicuramente quella di Umberto Galimberti con “La scuola e l’educazione delle emozioni e dei sentimenti”. «Platone diceva che la mente non si apre se non si apre il cuore e i sentimenti o li abbiamo imparati o non li abbiamo. La Scuola dovrebbe essere il luogo deputato alla cultura delle emozioni e dei sentimenti. Abbiamo riempito la scuola di computer e non di letteratura che ci insegna cos’è l’amore e il dolore.

Umberto Galimberti

Un professore deve avere la capacità empatica di leggere il cuore degli studenti». Galimberti propone una soluzione affinché si possa sensibilizzare il corpo insegnante: «All’atto dell’assunzione sarebbe necessario sottoporre l’insegnante ad un colloquio per capire se posseggono l’empatia necessaria ma questo significherebbe abolire il ruolo. Abbiamo riempito la scuola di cattivi insegnanti. La scuola non può licenziare nessuno. Dovrebbero essere costituite classi da 12 – 15 studenti al massimo, altro che accorpare le classi. È impossibile insegnare, educare, seguire se si hanno classi da 30 studenti. La scuola è stata pensata dalla politica come un posto di lavoro da assegnare mentre nei paesi nordici si selezionano i professori sulla base di un test di personali . Se uno non ha empatia va a fare un altro mestiere. Un Preside di una scuola di 1500 studenti, del Sud mi ha confessato: “io ho il 40% dei professori che sono dei falliti totali – un altro 20% sono inidonei – il restante 40% sono così così senza lode e senza infamia, aspettano di andare in pensione e tirano avanti”.

Educare è diverso da istruire. I professori dovrebbe fare obbligatoriamente l’esame di Psicologia dell’età evolutiva. Ma come si fa ad insegnare senza conoscere questi fondamenti? Va cambiata la qualità degli insegnanti. Il professore deve sedurre. La cultura è seduttiva se gliela proponi bene agli studenti. Accetto un professore che plagi i ragazzi, basta che li porti alla seduzione della cultura. I professori devo obbligatoriamente aver fatto teatro, essere dei teatranti. La cattedra è un palcoscenico, va conosciuta l’arte del leggere, dell’affascinare, conoscere e portare Dante in scena». Il filosofo prosegue spiegando che «i ragazzi d’oggi vivono nel loro mondo. Il mondo attuale segue la logica binaria del 1 – 0 / del SI, No. Tutto è così: tutto è quiz, referendum, esami. Ma attenzione che con la logica binaria non riesci a risolvere i problemi di una società complessa. Aggiungo in una epoca dove il mostro assoluto, di gran lunga il più terribile e potente di tutti, la Tecnica, ci mette sul tavolo dei problemi che oltrepassano di gran lunga le competenze di ognuno di noi. E consideriamo che la tecnica non è più nelle mani dell’uomo. È mutato il paesaggio. Andremo avanti e diventeremo dei computer. Siamo profilati con algoritmi e l’algoritmo non ha pietà. Crea un profilo che non ti di dice chi sei ma cosa serviamo. Piero Angela parlava del valore della tecnologia e della tecnica e la scuola deve fare scienza, soprattutto, evitare il populismo, informare».

Galimberti è di casa al Festival dell’Economia, avendo partecipato a tutte le sue edizioni e l’atto d’accusa che lancia verso la Scuola italiana viene recepito dal pubblico da molti applausi e qualche disappunto tra insegnanti presenti. Sul blog del Fatto Quotidiano Mario Pomini (professore associato di Economia politica) contesta la visione pessimistica di Galimberti scrivendo che «anche il noto filosofo e psicanalista Umberto Galimberti pare si sia unito alla numerosa schiera di coloro che denigrano la scuola pubblica italiana, e soprattutto i suoi insegnanti (…) Ora anche i filosofi se la prendono con la scuola che non educherebbe alle emozioni. Ma non è questo il punto importante della conferenza di Galimberti al recente Festival Filosofia di Modena, piuttosto l’idea del tutto errata che il filosofo ha della scuola pubblica italiana».

Galimberti nel suo intervento si rivolge anche nei confronti dei genitori che li considera « fanno i sindacalisti dei loro figli e vanno cacciati perché costringono gli insegnanti che bocciano i loro figli a trascorrere le estati con ricorsi nei tribunali, al Tar. Uccidono la meritocrazia. Gli studenti più bravi emigrano, i più scarsi restano a prendere il reddito di cittadinanza». In tempo di pandemia la scuola ha dovuto impartire le lezioni con la didattica a distanza: «Un fallimento totale. Gli studenti dovevano saltare l’anno, rifarlo. Non hanno imparato niente. Zero. Occorre guardare in faccia il professore e non tenere la testa piegata a guardare il cellulare – spiega Galimberti – la scuola è un rapporto personale studente professore». Anche le scuole private vengono portate sul banco degli imputati: «Abolirei le scuole private. Dei due tipi di scuole private, il primo tipo esempio Cepu, gli esamifici, le lauree on line, dove basta pagare. Abolirei le scuole in gara tra di loro che inseguono il business. Basta permettere, dare alla scuola pubblica, ai presidi la possibilità di licenziare». Per il filosofo e psicanalista la «scuola è come un luogo deputato alla cultura delle emozioni e dei sentimenti. «Platone diceva che la mente non si apre se non si apre il cuore e i sentimenti o li abbiamo imparati o non li abbiamo. La Scuola dovrebbe essere il luogo deputato alla cultura delle emozioni e dei sentimenti. Abbiamo riempito la scuola di computer e non di letteratura che ci insegna cos’è l’amore e il dolore.

Un professore deve avere la capacità empatica di leggere il cuore degli studenti». Galimberti propone una soluzione affinché si possa sensibilizzare il corpo insegnante: «All’atto dell’assunzione sarebbe necessario sottoporre l’insegnante ad un colloquio per capire se posseggono l’empatia necessaria ma questo significherebbe abolire il ruolo. Abbiamo riempito la scuola di cattivi insegnanti. La scuola non può licenziare nessuno. Dovrebbero essere costituite classi da 12 – 15 studenti al massimo, altro che accorpare le classi. È impossibile insegnare, educare, seguire se si hanno classi da 30 studenti. La scuola è stata pensata dalla politica come un posto di lavoro da assegnare mentre nei paesi nordici si selezionano i professori sulla base di un test di personali . Se uno non ha empatia va a fare un altro mestiere. Un Preside di una scuola di 1500 studenti, del Sud mi ha confessato: “io ho il 40% dei professori che sono dei falliti totali – un altro 20% sono inidonei – il restante 40% sono così così senza lode e senza infamia, aspettano di andare in pensione e tirano avanti”.

Educare è diverso da istruire. I professori dovrebbe fare obbligatoriamente l’esame di Psicologia dell’età evolutiva. Ma come si fa ad insegnare senza conoscere questi fondamenti? Va cambiata la qualità degli insegnanti. Il professore deve sedurre. La cultura è seduttiva se gliela proponi bene agli studenti. Accetto un professore che plagi i ragazzi, basta che li porti alla seduzione della cultura. I professori devo obbligatoriamente aver fatto teatro, essere dei teatranti. La cattedra è un palcoscenico, va conosciuta l’arte del leggere, dell’affascinare, conoscere e portare Dante in scena». Il filosofo prosegue spiegando che «i ragazzi d’oggi vivono nel loro mondo. Il mondo attuale segue la logica binaria del 1 – 0 / del SI, No. Tutto è così: tutto è quiz, referendum, esami. Ma attenzione che con la logica binaria non riesci a risolvere i problemi di una società complessa. Aggiungo in una epoca dove il mostro assoluto, di gran lunga il più terribile e potente di tutti, la Tecnica, ci mette sul tavolo dei problemi che oltrepassano di gran lunga le competenze di ognuno di noi. E consideriamo che la tecnica non è più nelle mani dell’uomo. È mutato il paesaggio. Andremo avanti e diventeremo dei computer. Siamo profilati con algoritmi e l’algoritmo non ha pietà. Crea un profilo che non ti di dice chi sei ma cosa serviamo. Piero Angela parlava del valore della tecnologia e della tecnica e la scuola deve fare scienza, soprattutto, evitare il populismo, informare».

Galimberti è di casa al Festival dell’Economia, avendo partecipato a tutte le sue edizioni e l’atto d’accusa che lancia verso la Scuola italiana viene recepito dal pubblico da molti applausi e qualche disappunto tra insegnanti presenti. Sul blog del Fatto Quotidiano Mario Pomini (professore associato di Economia politica) contesta la visione pessimistica di Galimberti scrivendo che «anche il noto filosofo e psicanalista Umberto Galimberti pare si sia unito alla numerosa schiera di coloro che denigrano la scuola pubblica italiana, e soprattutto i suoi insegnanti (…) Ora anche i filosofi se la prendono con la scuola che non educherebbe alle emozioni. Ma non è questo il punto importante della conferenza di Galimberti al recente Festival Filosofia di Modena, piuttosto l’idea del tutto errata che il filosofo ha della scuola pubblica italiana».

Galimberti nel suo intervento si rivolge anche nei confronti dei genitori che li considera « fanno i sindacalisti dei loro figli e vanno cacciati perché costringono gli insegnanti che bocciano i loro figli a trascorrere le estati con ricorsi nei tribunali, al Tar. Uccidono la meritocrazia. Gli studenti più bravi emigrano, i più scarsi restano a prendere il reddito di cittadinanza». In tempo di pandemia la scuola ha dovuto impartire le lezioni con la didattica a distanza: «Un fallimento totale. Gli studenti dovevano saltare l’anno, rifarlo. Non hanno imparato niente. Zero. Occorre guardare in faccia il professore e non tenere la testa piegata a guardare il cellulare – spiega Galimberti – la scuola è un rapporto personale studente professore». Anche le scuole private vengono portate sul banco degli imputati: «Abolirei le scuole private. Dei due tipi di scuole private, il primo tipo esempio Cepu, gli esamifici, le lauree on line, dove basta pagare. Abolirei le scuole in gara tra di loro che inseguono il business. Basta permettere, dare alla scuola pubblica, ai presidi la possibilità di licenziare». Per il filosofo e psicanalista la «scuola è come un luogo deputato alla cultura delle emozioni e dei sentimenti.

La democrazia se non è educata non è democrazia. In alternativa ci si deve affidare al governo dei migliori – gli aristios. Va prestata attenzione ai bambini nei primi 3 anni di vita nella scuola materna, dove l’identità arriva dalla società. È drammatico lo spostamento dalla identità data dalla società (la cultura greca) alla identità individuale, alla salvezza del singolo (cultura giudaico cristiana). Per Socrate l’identità te la da l’altro quando tu lo guardi nella parte buona dell’occhio dove in quella parte buona tu ti ritrovi. Va eliminata, vietata una certa pubblicità deleteria mortale per i ragazzi dove viene inculcato che basta desiderare per avere ma in questo modo si uccide il desiderio, viene reso indifferente il bambino alla vita. Le scuole medie sono il settore a maggiore disastro. Un tempo la sessualità era attesa a 13 -14 anni. Ora a 8 – 9 anni sui cellulari c’è tutto il mondo erotico (Galimberti ricorda che il «cellulare porta il nome del mezzo di trasporto dei detenuti e non è un caso», ndr). Ed è un cambio radicale per l’adolescente, un cambio del giudizio del mondo e non una aggiunta. Viviamo un’epoca critica per i ragazzi, di suicidi, milioni di anoressici e di ragazzi in disagio psichico. I ragazzi vanno seguiti nei tre stati, pulsionale poi emotivo e poi sentimentale.

Va sviluppata una risonanza emotiva dei comportamenti. Alle elementari si può, alle medie ancora ancora, alle superiori è impossibile. Non esonerate i ragazzi dalla conoscenza del male. Ora non abbiamo più i miti ma abbiamo la letteratura dove c’è dentro tutto e non pensate ai computer. Riempite le menti perché se venite colpiti da un dolore e avete la mente vuota, siete fregati (il riferimento è a Eschilo). Il successo di Dio è che nessuno l’ha mai visto. La Tecnica non ha figli, non redime, è un mondo e noi non possiamo andare al di fuori di questo mondo; ci siamo dentro in pieno. Massimo risultato con il minimo sforzo. Se questo è il risultato, l’uomo va fuori dalla storia. Spariscono amore, sogno, bisogni, emozioni ecc. E il bello, o il drammatico, è che la tecnica funziona. L’unica è cercare di conservare tratti umani». Una disamina impietosa che ha suscitato reazioni contrapposte ma che ha il pregio di far riflettere e porsi delle domande ma non rivolte a lui, come ha chiuso provocatoriamente la sua acclamata relazione (al termine il pubblico poteva rivolgere delle domande ad ogni ospite del Festival) rivolgendosi così: «Se mi fate delle domande da come si esce da questa situazione io non vi rispondo perché da questa situazione non se ne esce. Non fatemi delle domande ma fatevi voi delle domande e rispondetevi». La conclusione è una confessione: «Chiudo infine con una rabbia addosso. Un grande direttore di una clinica di Milano, un grande cardiologo parlando dei suoi giovani medici dice che sono tecnicamente molto preparati, bravi ma non riescono a capire la differenza tra salute e malattia. Non conoscono il malato.

È il prodotto della logica binaria dove non siamo più nel mondo. Dove siamo nel web dove io non ti vedo più. Siamo in una rappresentazione del mondo e non nel mondo». E comunichiamo male: «Siamo al collasso della comunicazione. Pensate che comunichiamo con le faccine. Siamo tornati alle pitture rupestri. Siamo sempre più poveri».Povertà delle istituzioni, povertà di una società e di chi l’amministra. Di questo e di una crisi profonda dei valori che l’Italia soffre per essere una nazione ostaggio (anche) delle mafie si è parlato nel dibattito “Per una società libera. Lotta alle mafie e giustizia sociale” con Luigi Ciotti moderato da Gad Lerner. Non ha peli sulla lingua, il fondatore di Libera: «Tutti parlano, nascono ondate emotive che però come sono tutte le emozioni passano, devono diventare profonde. Le emozioni passano e se non diventano sentimenti tutto è inutile e perso.

Questo l’incipit che ha aperto il dialogo dove è stata ricordata anche Narcomafie, un mensile italiano pubblicato dal 1993 al 2019. Dal gennaio 2020 ha cambiato nome in Lavialibera che ne ha raccolto l’eredità. Fondata da don Ciotti con l’obiettivo di documentare il fenomeno della mafia e del narcotraffico, edita dal Gruppo Abele in collaborazione con Libera. La mafia è al centro del pensiero espresso con una lucidità straordinaria: «La mafia non è un problema solo delle regioni del Sud, le mafie al Nord c’erano già molto tempo prima di quanto si possa credere». Gad Lerner chiede perché non fa più notizia parlare di mafia. «Non ci sono più i morti eccellenti. Sembra che il problema sia stato superato e chi se ne occupa lancia l’allarme. Penso all’Emilia Romagna che è diventata terra di mafie. Non si sparge più sangue, non si commette violenza, i mafiosi sono vestiti bene, i manager, entrano nelle imprese. Non si spara più perché i mafiosi hanno i contatti con segmenti della politica e dell’economia. Apparentemente le vittime di mafia sono poche quando invece sono tanti i “morti vivi”. I mafiosi sono manager e hanno abbandonato quelle forme arcaiche. Durante la pandemia sono arrivati i mafiosi ad aiutare chi era in crisi e dove lo Stato non c’era. Penso alla Sicilia che sta tornando indietro di trent’anni e che rappresenta una metafora dell’Italia». È assodato che la vera difficoltà delle mafie non è guadagnare denaro. La macchina per generare soldi è gigantesca, radicata, ben oliata.

La grande sfida è lavarli, ripulirli. don Ciotti punta il dito verso la politica: «Il problema della politica è che dovrebbe fare del bene per i cittadini, per la polis. La politica nasce dell’etica della comunità. Il divorzio tra la politica e l’etica in tante realtà e se la politica non fa quello che deve fare, tradisce la sua essenza e non è politica». Ma la domanda che fa Luigi Ciotti arriva come una freccia è: «Dove sono i cittadini italiani? Troppi cittadini ad intermittenza, non c’è gente che sale sulle barricate. Io difendo la sacralità delle istituzioni, indipendente da chi oggi c’è, da chi di turno le governa ma se la politica non combatte le mafie diventa criminogena. Per il contrasto all’illegalità, alle mafie, usiamo la cultura, l’associazionismo. Un ministro ha detto che con la mafia dobbiamo convivere ma un ufficiale pubblico ha la responsabilità delle parole che dice. L’individualismo, l’egoismo, il potere, la convenienza, l’inganno delle parole» sono per don Ciotti il male che si insinua nella società e non ha dubbi anche sul ruolo dell’Antimafia: «vada in quarantena permanente».

Il suo accorato appello a difendere la legalità e la giustizia include anche le vittime di mafia: «L’80% dei familiari delle vittime di mafia non conosce la verità. Delle stragi non conosciamo la verità. Possibile? Noi lo dobbiamo fare, lo dobbiamo a questa gente». Si rivolge anche ai giovani (molti presenti tra il pubblico). «Il futuro ragazzi incalza, è urgente, diffidate vi prego di chi non vi ascolta, di chi parla di voi ma non con voi. Sappiate distinguere tra seduttori,  produttori di suggestioni, ed educatori, coloro che rendono le persone libere. Ragazzi, non mettete la vostra libertà in vendita». Una lunga fila di persone al termine dell’incontro lo ha avvicinato per ringraziarlo e sostenere la sua civile e appassionata missione, specie quando dice:« Io sono fragile. L’urto del tempo, io non reggo più l’urto del tempo».

Il Festival della Filosofia è stata anche l’occasione per conoscere attraverso mostre di fotografia d’autore, materiali d’archivio, musica e teatro, validi spunti che avevano come obiettivo quello di interrogare il concetto di giustizia “quanto la sua negazione”. Un percorso ragionato in cui era possibile conoscere il passato di Modena dell’Antico Regime fino alla realtà desolante delle carceri contemporanee. Alla Biblioteca Poletti è possibile visitare fino al 10 dicembre la personale del fotoreporter Valerio Bispuri che si dedica al mondo degli invisibili e degli esclusi, “Prigionieri. Viaggio nella libertà perduta”. Una raccolta fotografica che testimonia le condizioni di degrado all’interno del sistema carcerario italiano in cui i soggetti fotografati sono uomini e donne a cui è stata privata la libertà per aver commesso dei reati. Sono immagini dolenti e impregnate di vissuti dolorosi in cui è palpabile l’intenzione dell’autore di raccontare vite emarginate. Fotografie in bianco e nero materiche capaci di soffermare lo sguardo del visitatore per lunghi istanti.

Prigionieri crediti foto Valerio Bispuri

Non c’è nessuna intenzionalità retorica o ideologica ma una profonda sensibilità nel portare a conoscenza dell’opinione pubblica una realtà oscura e spesso alienante. Un’indagine che assume un valore antropologico che ha condotto Valerio Bispuri ad entrare anche nelle carceri sudamericane di Argentina, Brasile, Perù. Fotografie che raccontano lo scandire del tempo che sembra non passare mai, rappresentazioni di vita quotidiana dove viene annullata la dignità dell’essere umano.

Per tre anni ha visitato Poggioreale, Regina Coeli, l’Ucciardone a Palermo e San Vittore a Milano, il carcere femminile della Giudecca a Venezia, la sezione femminile di Rebibbia a Roma. Ha pubblicato il volume fotografico Prigionieri per l’editore Contrasto che descrive «Il mio viaggio nelle carceri italiane è il secondo capitolo di un lungo viaggio iniziato nelle prigioni sudamericane. Si tratta di un percorso sull’essere umano, sullo stato emotivo e psicologico di chi è privo di libertà; un lavoro su come cambia il tempo di chi è rinchiuso, su come cambiano i gesti e su come si reagisce a una solitudine di massa.

Valerio Bispuri

Prigionieri” è un lavoro fotografico ma è anche un lavoro antropologico che è parte di un’indagine che porto avanti da vent’anni sulla libertà perduta: attraverso il carcere o la droga, l’emarginazione sociale o le problematiche fisiche o psichiche». Indagare il tema della giustizia nelle sue molteplici declinazioni è sicuramente un impegno e una sfida per chi ha il compito di realizzare un programma come quello ideato dal direttore artistico Daniele Francesconi.

Seguitissima anche la Lectio Magistralis di Michela Marzano che insegna filosofia morale all’Università Paris V- René che non ha esitato a svelare aspetti della sua vita privata, costellata di ricordi sui suoi famigliari, padre e nonno, segnati dall’epoca fascista in cui entrambi hanno vissuto anche con ruoli in magistratura. Ricordi scomodi ma necessari. Autrice di “Stirpe e vergogna (Rizzoli editore), Michela Marzano si confessa per affrontare il tema della rimozione che l’Italia sembra essere affetta mancando di coraggio e determinazione nel fare i conti con il proprio passato. Lancia un appello con il compito di conoscere la propria storia sia personale, famigliare che della propria nazione.

Gli italiani sembrano restii però a farlo. In conclusione per quanto riguarda gli appuntamenti previsti a Modena, di indubbio valore e interesse si è dimostrata la relazione che ha tenuto in piazza Grande , Anna Maria Lorusso che insegna Semiotica all’Università di Bologna. Si occupa di memoria ed eredità culturale, di narrazioni sociali, delle forme di “polarizzazione” della storia, attraverso i media. La sua lezione portava il titolo di “Sdegno. Tra scandalo etico e sensazionalismo”. «Lo sdegno ora viene manifestato sui social dove vengono sollecitate le reazioni in forma di giudizio. I like sono diventati un modo di stare al mondo e siamo molto esposti a questo strumento che ci ha abituati ad usare – ha spiegato la docente universitaria – per ottenere reazioni veloci, brevi, sintetiche, immediate. I social sono contagiosi, virali. Le reazioni che facilitano lo sdegno sui social ma anche lo sfogo che non ha la vocazione morale che ha lo sdegno.

Anna Maria Lorusso

La sovrapposizione tra sdegno e sfogo sono categorie molto diverse che dovremmo tenere separate. I social facilitano queste espressioni e lo sdegno vuole essere dimostrativo e performativo, perché vuole incidere sui comportamenti degli altri. Si basa sulla convinzione di fare una cosa buona. L’esibizionismo di queste dimostrazioni sui social e lo sdegno ci distingue, ci eleva sopra il silenzio degli altri, da azione individuale a collettiva». Anna Maria Lorusso cita il saggio “I giustizieri della Rete. La pubblica umiliazione ai tempi di Internet” di Jon Ronson (Codice Edizione) in cui si affrontano le conseguenze di chi utilizza i social: “Twitter e Facebook hanno un lato oscuro: spesso alimentano i peggiori istinti moralizzatori delle persone, dando vita a una versione moderna e violentissima della gogna pubblica. Il bersaglio può essere chiunque, il perfetto sconosciuto come il personaggio famoso: Justine Sacco, che per un tweet di cattivo gusto ha perso il lavoro; Jonah Lehrer, star della divulgazione scientifica che si è visto rovinare la carriera per una citazione (inventata) di Bob Dylan; Lindsey Stone, che per una foto su Facebook si è dovuta quasi nascondere in casa per un anno; sono solo alcune delle vittime della violenza cieca e anonima dei giustizieri della rete”. Appuntamento al 2023 con una nuova edizione tutta dedicata alla Parola.

condiviso da www.rumorscena.com/24/09/2022/un-festival-della-filosofia-che-chiede-giustizia-e-da-parola-a-voci-diverse

 


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