“Nostalgia” di Mario Martone

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Un film bellissimo, amaro, a tratti poetico, con una bellissima fotografia, affidata a Francesco di Leva), il cui titolo non premia la complessità dei temi ivi trattati. Ambientato a Napoli, nel Rione Sanità. 

Dal 25 maggio nelle sale cinematografiche italiane l’ultimo film di Mario Martone, che ne cura anche la sceneggiatura insieme a Ippolita di Majo, per Medusa Film, tratto dall’omonimo romanzo di Ermanno Rea, con uno splendido Pierfrancesco Favino: “Nostalgia”, in questi giorni in concorso nella Selezione Ufficiale al festival di Cannes.

Un film in cui il regista ha scelto di raccontare una storia che potremmo definire subalterna, marginale (ma non troppo), con l’abbandono di espedienti retorici ed una tendenza poco narrativa, con ampi spazi dedicati all’approfondimento psicologico dei personaggi.

Nostalgia, un titolo riduttivo, perché il film non tratta soltanto di ciò che è stato e non è più, ma è vita vera, quella di una città dai “mille culure”, dalle “mille paure”, la “voce de’ criature” quella di …nu sole amaro”… : Napoli! La Napoli di Martone, quella di Pino Daniele, ma anche la nostra, quella dove tutti noi vorremmo poter camminare “int’e viche miezo all’ate” e che tutti vorremmo amare senza esitazioni. Ma Napule è “na carta sporca”.

Un film amaro, a tratti toccante, come l’incontro di Felice con la Mamma che non vedeva da 40 anni, che non lascia spazi ai buonismi di maniera.

Felice ha vissuto per circa 40 anni all’estero, in Nord Africa, ed ora vive una vita di successo a Il Cairo, dove ha un’ impresa di costruzione tutta sua, una bella casa e una moglie bellissima. Ma tutto questo non gli basta: il suo cuore, le sue radici, sono rimaste a Napoli, da dove è fuggito all’età di 15 anni, obbligato dallo Zio, per evitare la deriva delinquenziale e forse il carcere a vita.

Ma il ritorno nella sua Napoli, in quel Rione Sanità che gli aveva dato i natali e che lo aveva predestinato ad una vita alla deriva, e di cui non ricorda più la parlata (uno straniero in patria), sarà travolgente. Camminando tra i vicoli del Rione Sanità, Felice ripercorre la sua adolescenza, fatta di piccoli furti, con la mamma Teresa (una meravigliosa e tenerissima Aurora Quattrocchi) che faceva di tutto per sottrarlo a quel destino tragico ed incombente al quale il figlio di una sarta e di un padre inesistente sembrava predestinato.

Ma non solo. In realtà, è il ricordo di Oreste che lo assilla – l’amico del cuore con il quale aveva condiviso tutto e al quale era indissolubilmente legato da un segreto inconfessabile, taciuto, che lo assilla da sempre – e al quale vorrebbe spiegare il perché della sua fuga improvvisa e silenziosa da quel quartiere e da quella città, avvenuta senza una spiegazione.

Ma Oreste (Tommaso Ragno), nel frattempo è diventato il Boss del Rione Sanità, “u Malomm”, un boss sanguinario, a capo di ogni traffico illecito: dalla prostituzione alla droga; tra l’altro, Oreste è il nemico giurato di Don Luigi (Francesco di Leva), il prete simbolo della lotta alla Camorra, al quale Felice ha confessato, nel frattempo, il legame di sangue che lo lega a “u’ Malomm”.

Ma “u Malomm” non vuole affatto incontrarlo, anzi, fa di tutto, anche con messaggi minatori, per indurlo a lasciare la città e a fare ritorno a “Il Cairo”. Oreste, in verità, non vuole che il passato ritorni a bussare alla sua porta mostrandogli che la vita avrebbe potuto concedergli, forse, un destino diverso: quello di un boss sanguinario, condannato alla solitudine,  “un re della mmonnezza” (umana). E dopo il primo, ed unico, difficile, incontro, egli farà di tutto, ma proprio di tutto, perché il passato non torni a bussare nuovamente alla sua porta.

Un film struggente, a volte poetico, come la scena (magistrale) di Felice che adagia  l’anziana madre, oramai quasi cieca (morirà di lì a poco), in una improvvisata vasca  in cui l’acqua assurge a valore simbolico: fonte di vita, purificatrice (Felice ha nel frattempo abbracciato la fede Islamica), di salvezza.


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