Quel che resta del passato. Kazuo Ishiguro tra testo e schermo

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Lontano dal pudore con cui ogni malinconia si accompagna, Ishiguro svela lentamente, goccia a goccia, silenzio dopo silenzio, la dolorosa marcia indietro di Mr. Stevens, l’indimenticabile protagonista del romanzo Quel che resta del giorno (The Remains of the Day, 1989): montato cautamente su un’antica, meravigliosa Bentley, il maggiordomo Stevens affronta le tortuose curve della regione sud-occidentale dell’Inghilterra, alla volta di Clevedon, dove la ex-Governante Miss Kenton lo attende: la voragine degli anni ha creato fra loro un’invisibile, invalicabile barriera di rispettosa lontananza, ma non di oblio. Il viaggio di Stevens è soprattutto interiore, un itinerario dell’anima priva di chimeriche aspettative, ma guidato dall’amara, durissima concentrazione atta al non piangere, al non indulgere in effimere illusioni.

La descrizione della trattenuta commozione del protagonista nel romanzo lascia emergere, in tutta la sua potenza, la grandezza del suo autore: la formazione nipponica di Ishiguro garantisce alla sua scrittura un’essenzialità rara, priva di sbavature, di manierismi, di smorfie auto-referenziali; proprio nel tratteggio di ciò che non si vede, ma si sente, il lettore pian piano si abbandona ad una sorta di flusso combinato di emozioni, le intreccia a quelle di Stevens, le confronta, ne entra in possesso, le abbandona, così come l’intero romanzo è centrato sull’invertibilità del passato, sull’irrimediabilità dell’esperienza, sulla lancinante, dolcissima ossessione attraverso cui il nostro “ieri” compare anche tra i tornanti e le pupille acquose di un anziano maggiordomo mentre cerca di raggiungere, tardivamente, l’unica meteora, l’unica illusione , l’unico sguardo dal quale aveva ricevuto un autentico barlume d’amore.

Quel che resta del giorno, copertina del libro

La trasposizione cinematografica, sontuosa e fluida, rivela un Ivory mai così calibrato e puntuto, lontano da certe artificiosità che caratterizzano tanto suo cinema successivo. La presenza di Anthony Hopkins garantisce intelligenza e spiritualità al personaggio di Mr. Stevens, in cui Hopkins riversa tutta la propria maestria: lo spettatore percepisce gli stati d’animo per mezzo di piccolissimi gesti, di microscopici movimenti dei muscoli delle labbra o delle palpebre, in una dialettica esteticamente coinvolgente nella quale il paesaggio ricopre un grande ruolo: un’Inghilterra piovosa, ma non retorica, conservatrice anche nella confezione degli abiti, nel nitore della vettura, nel ticchettio della pioggia sul tettuccio, nello stridio dei tergicristalli, nel rimuginare sonnecchiante e ansioso dei pensieri di Stevens.

Tutti siamo consapevoli del salto linguistico con cui dobbiamo fare i conti di fronte ad un romanzo poi trasferito alla pellicola e siamo consci di quanto un mutamento di linguaggio renda spesso incomparabili le due operazioni; tuttavia, in questo caso, il testo letterario di Isghiguro trova una sorta di magico partner nella sensibilità di Ivory; riesce tuttora arduo trovare altre pellicole così tanto ben curate da creare una sorta di “secondo testo” con cui confrontare l’originale, ad armi pari.

Quel che resta del giorno

Il testo di Ishiguro utilizza – marchio di fabbrica dell’autore – una concertazione costantemente impegnata in un “pianissimo” o in un “largo”, evidenziato dalla fittissima costruzione reticolare dalla quale scaturiscono non tanto le espressioni verbali, bensì le intenzioni del pensiero, le prefazioni a testi mai scritti, gli spazi di discorsi mai pronunciati, le attese di abbracci mai azzardati, di sguardi rivolti sempre altrove. Emma Thompson, nel film di Ivory, riesce a costruire la storia del proprio personaggio con una grazia stupefacente: si propone inizialmente allo sguardo dello spettatore, giovane e un po’ sfrontata, pronta ad accettare la sfida immediatamente lanciata dal suo interlocutore-mentore: ma lentamente, la governante acquisisce una coscienza di sé sempre più profonda; conduce i propri passi innalzando il proprio livello di vigilanza, soprattutto su se stessa e non di rado chi guarda percepisce le rughe intorno agli occhi nel momento stesso in cui nascono, intristendo progressivamente il volto e l’espressione della protagonista. Per certi versi Emma Thompson complica il personaggio romanzesco, gli regala connotazioni probabilmente appartenenti a se stessa, offre alla visibilità la sottilissima struttura della sua anima, sebbene Miss Kenton, differentemente da Stevens, sia una donna del mondo; e nel mondo agisce e nel mondo reagisce alla propria reclusione, all’inesprimibilità della personale condizione di persona-personaggio che cresce; la governante si innamora (non di chi “dovrebbe”), trasgredisce il conventuale rigore dettato da Stevens, edifica un’esistenza “reale”, lascia il lavoro, si sposa, diventa moglie e madre, poi si separa, accetta dignitosamente il tramonto. Nel petto di Stevens, invece, non è mai sorto il sole, prima dell’arrivo di Miss Kenton; tutta l’esistenza del maggiordomo è rivolta al perfezionamento dell’accoglienza degli ospiti, al rispetto e alla cura del suo padrone, alla preoccupazione decisamente patologica per i più minuti dettagli legati alla cerimoniosità, all’ospitalità, al servizio. E “di servizio” è l’intera vita di Stevens, un soldato a guida di una truppa di camerieri, servitori, inservienti, condotto col piglio di un generale di corpo d’armata: Hopkins gestisce il corpo impostando una prossemica obliqua, mai davvero servile, ma mai pretenziosa; semmai piena di premura, in allerta, pronta all’azione.

Quel che resta del giorno

Nel romanzo il maggiordomo convive con la ristrettezza del proprio vocabolario: la sua è una nomenclatura a scartamento ridotto, ogni piccola disattenzione diventa occasione di un’autopunitiva, inamidata goffaggine, resa tenera, se non struggente, dall’intero universo omissivo di cui sia il testo, sia il lungometraggio abbondano. La maestria letteraria di Ishiguro traccia la linea testuale su una prospettiva ‘fantasmica’, dove le parole-spettro veicolano sentimenti e pulsioni attraverso gesti appena abbozzati, desideri presto repressi, sogni istantaneamente svaniti; nel cinema di Ivory, la stesura di Ishiguro si parcellizza in una cascata di microtoni, le immagini svelano e non rivelano, alludono senza occultare, anch’esse frutto di un linguaggio che restituisce a noi lettori-spettatori, i semplici ‘resti’, le povere rimanenze, dei nostri giorni declinati al passato.

Non lasciarmi, copertina del romanzo

Nel 2005 Kazuo Ishiguro pubblica uno dei più riusciti romanzi della letteratura europea degli ultimi anni: Never Let Me Go (Non lasciarmi, 2005). Dopo una lunga attesa di un romanzo “distopico”, pur immersi in una pletora di pseudo-produzioni quasi sempre funzionali al mercato, operazioni furbesche e desolanti, i lettori vengono ripagati dal grande autore nippo-britannico che realizza uno dei suoi capolavori. Ancora una volta la scrittura non porta con sé alcuna impronta autocelebrativa, né occhieggia a questo o a quell’altro facile giochetto commerciale: l’espressività mantiene la medesima atmosfera tersa, cristallina, scintillante e anti-manieristica di tutte le sue opere. Come sempre Ishiguro parte “da lontano” e immerge i propri drammi, le proprie storie, in contesti spiazzanti e sovente gradevoli. La struttura narrativa si articola partendo dall’ambientazione: un istituto chiamato Hailsham – a voler azzardare un gioco lessicale hail (grandine, pioggia), sham (fasulla) – (Una scuola? Un college? Un Riformatorio per benestanti? Una Casa di rieducazione?), immerso nella campagna, ospita alcune decine di giovani e giovanissimi (Studenti? Affiliati? Reclusi?) sotto la guida ferrea, ma benevola di Madame. Fin qui alcune tematiche care ad Ishiguro si manifestano circolarmente, come un girotondo di situazioni lentamente in movimento: la condizione orfana, la centralità della Madre, il paesaggio campestre, la formazione psicologica dell’individuo). Man mano l’articolazione narrativa apre lo scenario a tre personaggi che rapidamente occuperanno l’intero palcoscenico romanzesco: Tom, Ruth e Kathy. Quest’ultima è la voce narrante. Le ragioni che sottopongono questi ragazzi alla dorata, misteriosa residenza nell’ameno istituto, sono centellinate, nel consueto labirinto speculare costituito di non-detto, di azioni fermate nel loro principiare, di silenziosi anditi dove le parole cadono in un meditabondo sgocciolio.

Non lasciarmi

Lo sviluppo della vicenda tocca punte di alta tensione emotiva, specialmente nell’analizzare con lineare spietatezza, le azioni e i pensieri della triangolazione sentimentale che invade i tre principali protagonisti. La sapienza di Ishiguro, lettore appassionato e conoscitore di infiniti registri espressivi, conduce il lettore ad una implacabile rivelazione: in un momento inaspettato viene svelato il motivo agghiacciante della permanenza di tutti questi giovani ad Hailsham; da qui la storia prende un’altra direzione e, per quanto ne sia quasi respinto, Ishiguro “rincorre” gli stati emotivi dei protagonisti, li bracca, a volte, in un corpo a corpo più psicologico che letterario. Lo svelamento avviene in modo semplice, stordente e giunge attraverso parole secche: “Di voi sappiamo tutto”. La delatrice non usa sofismi addolcenti, piuttosto rende noto l’abisso della verità con parole usuali, quotidiane: “Molti ragazzi sognano di andare in America” […] “Voi non andrete in America”.

I temi sottesi hanno a che vedere con aspetti della contemporaneità ormai dibattuti, fonte di infinite diatribe etiche, di feroci dibattiti sociologici. Ishiguro, di contro, induce a concentrarsi sul portato umano (troppo umano) del destino, specie se guidato e indirizzato da altri; incoraggia a guardare con intima partecipazione l’evoluzione di un essere vivente di fronte ad una ‘colpa’ metafisica (Kafka, ovviamente), di fronte ad una condizione esistenzialmente definita da agenti estranei all’Io. Soprattutto, lo scrittore perlustra uno degli aspetti più presenti e striscianti tra le giovani e giovanissime generazioni: la serena, piena, consapevole rinuncia ad ogni ribellione. Nessuno stupore né alcuna indignazione né tracce di denuncia politico-sociale: il rispetto, piuttosto, per una logica meno prevedibile di guardare al mondo, al proprio destino, alla propria vicenda personale, senza attribuire responsabilità – pur tragicamente evidenti – che di poco o nulla cambierebbero lo sviluppo degli eventi.

Non lasciarmi

Ancora una volta la trasposizione cinematografica di un romanzo di Ishiguro – come nel caso del fortunato Quel che resta del giorno – denota la felicità con cui avviene il trasferimento del linguaggio, la migrazione degli intrecci narrativi, la personificazione visiva di stati d’animo, passioni, traumi.

Il regista Mark Romanek riesce nell’impresa di trattenere ogni tentazione catastrofista e di equilibrare la riflessione filosofica, affidandola a brevi digressioni all’interno delle battute pronunciate dagli attori o, con ottima resa, cedendola a silenziose immagini dove quiete e indeterminatezza meglio di ogni esposizione verbale restituiscono l’impalpabilità drammatica di cui è intriso il soggetto narrativo. Da segnalare, fra tutte, l’interpretazione di Keira Knightley, qui ancora molto giovane, ma efficace, convincente ed intensa. Riesce a costruire un personaggio capace di esprimere tematiche universali e insolute, con semplicità e misura: se il filo conduttore è da individuare nella precarietà del vivere umano, si immagini quanto occorra identificarsi intimamente nella fragilità e nella corrispondente potenza dei sentimenti; è proprio in questo caso che ci si inorgoglisce di ammirare a cinema un’attrice tanto giovane e tanto intelligente di non anteporre la propria urgenza espressiva alle esigenze del personaggio interpretato.

Non lasciarmi

Tuttavia andrebbe segnalato come, non casualmente, anche questa riduzione filmica risulti pienamente convincente in buona parte per merito dello “script” fortemente ispirato all’originale. Kazuo Ishiguro con delicatezza e malinconia ripercorre le tappe emotive dentro cui tutti noi, prima o poi, sostiamo e si ostina a non indicare vie d’uscita, a non veicolare chissà quali messaggi, a non imporre la propria voce sulla nostra commozione e su quel silenzio che accompagna chi chiude la quarta di copertina di un romanzo incantevole o di chi esce, a testa bassa, dalla sala, ancora pieni gli occhi dei colori autunnali di Hailsham.

 

Fabrizio Nocilla nasce in Sicilia, studia tra Palermo e Roma. Si Laurea in Lettere Moderne e inizia prestissimo la carriera didattica. Segue parallelamente una formazione letteraria e teatrale. Frequenta corsi istituzionali presso Teathes di Palermo, Teatro Brancaccio di Roma, Nuovo Laboratorio Europeo di Jerzy Grotowsky. Collabora per undici anni con il Piccolo Teatro di Milano; nel 2004 partecipa al Masterclass (Ronconi, Labaki, Brook, Dodin, Vassiliev, ecc.). Vive a Torino dove insegna in un liceo e coordina una Compagnia teatrale (Magaria).


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