Se l’Europa rinascesse a Kabul 

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Sarebbe bello se in questo tempo martoriato e offeso, in cui l’Occidente è franato in via definitiva a cavallo di Ferragosto e si è di fatto conclusa la stagione dell’egemonia americana, l’Europa trovasse la forza di costituirsi finalmente come Unione politica. Sarebbe bello, insomma, se rinascesse fra le macerie di Kabul, là dove alcuni improvvisati leader la condussero vent’anni fa, mentre i trombettieri al seguito suonavano entusiasti la fanfara per il martirio del popolo afghano, alla ricerca di Bin Laden, che ovviamente non era lì, e nel tentativo di stroncare al-Qā’ida, che non aveva lì la propria base. Ora, intendiamoci: dei Talebani si può e si deve pensare tutto il male possibile. Di buono e di moderato non hanno nulla e guai a lasciarsi irretire da qualche dichiarazione di comodo pronunciata a favor di telecamera, con l’auspicio che le forze sconfitte voltino presto le spalle alla popolazione civile per poter fare carne di porco di donne e oppositori. Guai, dunque, a chiudere gli occhi o a girarsi dall’altra parte: telecamere e attenzione devono essere rivolti costantemente all’intero Paese, non solo alla capitale, onde evitare che il talebanesimo dilaghi nuovamente nelle sue forme peggiori. Ciò premesso, non c’è dubbio che se l’Europa volesse trovare una propria ragione di esistere, dovrebbe ora mettere da parte i commentatori e gli esperti di Twitter e affidarsi a chi suggerisce di dialogare con il nuovo governo di Kabul, al fine di porre dei punti non negoziabili in termini di rispetto dei diritti umani e di creare corridoi umanitari che consentano a chi è sostanzialmente condannato a morte dal nuovo scenario politico che si è venuto a creare di fuggire e approdare alle nostre latitudini.
Se invece, come purtroppo sembra, anche per via delle imminenti elezioni che si svolgeranno nel contesto franco-tedesco, la linea del Vecchio Continente dovesse unire al disinteresse di un tempo il cinismo elettorale contemporaneo, magari finanziando ulteriormente alcuni tagliagole che, quanto a barbarie, hanno poco da invidiare ai Talebani, ecco che al tramonto degli Stati Uniti farebbe seguito il nostro. Perché un’Europa incapace di esercitare qualsivoglia prerogativa umanitaria, chiusa in se stessa, arroccata sulle posizioni dei peggiori populisti e incapace di sfidare a viso aperto chi la vuole distruggere dall’interno, semplicemente non ha una ragion d’essere.
Se dopo il secolo americano vogliamo scongiurare quello cinese e riappropriarci di un ruolo nel mondo, dobbiamo pertanto puntare su un approccio policentrico, senza pensare di poter essere egemoni come ai tempi dei grandi imperi ma rimettendo l’Unione Europea al tavolo delle potenze mondiali, parlando con una voce corale ed esercitando una politica estera comune e volta a creare equilibri globali più sostenibili e dai tratti meno imperialisti rispetto a quelli che hanno caratterizzato la presidenza di George W. Bush e di alcuni suoi vassalli all’inizio del Secolo.
L’Europa può morire domani o rinascere nel breve volgere di alcuni mesi. Nel primo caso, il predominio cinese sarebbe inevitabile e porterebbe con sé anche una ripresa di forza e di potere della Russia di Putin. Nel secondo, Cina e Russia diverrebbero due interlocutori essenziali ma dovrebbero fare i conti con uno scacchiere geo-politico più complesso e, alla lunga, rivedere anche alcune loro posizioni e abbracciare qualche principio democratico, indispensabile per competere in una sfida nella quale non si è di fatto a soli attori sul palcoscenico.
In ballo c’è la democrazia. Le elezioni dei prossimi otto mesi ci diranno se il Ventunesimo secolo avrà ancora al centro questo concetto o se, invece, si propenderà per il suo progressivo accantonamento, in nome di un autoritarismo neanche troppo gentile che da Cina e Russia dilaghera anche da noi e, naturalmente, negli Stati Uniti, rendendo le battaglie elettorali che tanto ancora ci affascinano poco più che dei “ludi cartacei” di mussoliniana memoria.
P.S. Dedico quest’articolo alla memoria di Nicoletta Orsomando, regina delle annunciatori RAI, il cui garbo e la cui signorilità hanno scandito una delle stagioni migliori nella storia del servizio pubblico e dell’Italia. Il suo addio, all’età di novantadue anni, rende evidente che una fase storica si è definitivamente conclusa e che adesso sta a noi non farla eccessivamente rimpiangere in nessun settore.

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