Miracoli visivi…da rivedere!

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Il cinema prodigioso di Youssef Chahine

Silenzio…si gira!, di Youssef Chahine, prod. Egitto-Francia, 2001.

Campione di incassi in patria, passato pressoché inosservato in Italia, dopo essere stato presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia 2001, infine recuperato nei nostri circuiti d’essai, il 35° titolo di Youssef Chahine (padre con Tewfik Salah del moderno cinema egiziano ed autore di svolta per tutto il cinema arabo con i suoi film “Stazione Cairo” del ’57,e “Jamila l’algerina”, del’58, quest’ultimo scritto in collaborazione con il futuro Premio Nobel Naghib Mafuz, opere entrambe di stampo neorealista ma già rossellinianamente più in là) si segnala come una sorta di summa teorica del melodramma, genere da sempre prediletto nei paesi arabi. Dopo il meritato successo internazionale di pubblico e di critica ottenuto con gli splendidi precedenti “Il destino”, ’97, e “L’altro”,’99, Chahine ritorna con “Silenzio, si gira” alla grande lezione della Hollywood a cavallo fra gli anni ’40 e ’50, che lo vide entusiasta apprendista negli Studios losangelini, dopo i due anni di studio trascorsi alla Pasadena Play House di New York. Esperienze queste che egli riverserà nella quadrilogia autobiografica aperta nel ’78 con il premiato “Alessandria …perché?” e chiusa nel 2004 con “Alessandria…New York”, in mezzo “La memoria”,’82, e “Alessandria, ancora e sempre”,’90. La trama di “Silenzio…si gira!”, che narra le vicende sentimentali di Malak, cantante di successo in attesa di divorzio impegnata sul set di un film musicale e innamorata di un giovane interessato soprattutto ai suoi soldi al punto di tentare di concupirne la figlia Paula, credendola l’unica erede designata della nonna che tanto lo aveva avversato in vita, consente a Chahine di intrecciare le radici popolari del cinema arabo alla sofisticata drammaturgia di maestri storici del melodramma made in Usa quali Douglas Sirk (cineasta di origine tedesca molto caro Fassbinder) e Delmer Daves, senza dimenticare la grande lezione di Federico Fellini, neanche tanto sottesa in molti dei suoi ultimi film. Il cinema nel cinema e l’ambientazione contemporanea offrono, inoltre, al regista egiziano l’opportunità di analizzare con ironia e sagacia la nuova società araba, sempre più occidentalizzata nella divisione fra le classi e nell’arrivismo come comportamento dominante. E le inquadrature dall’alto delle affollate spiagge del Cairo non possono non far venire in mente i “boom movies” del nostro grande Dino Risi. Il tutto a geniale anticipazione del suo ultimo e drammatico film “Il caos”,’07, a sua volta profetico nell’inquadrare i motivi della rivolta popolare che costrinse Mubarak alla fuga. Incursione questa certo non casuale di Chahine nel cinema politico, che lo vide già nel ’68 impegnato a sostenere l’eredità nasseriana con “La gente e il Nilo” e nel ’73, con “Il passero”, non lesinare critiche al governo del suo paese per la guerra dei Sei giorni, tanto che il film venne fatto uscire durante il Ramadam quando i cinema aprono per un solo spettacolo. Per non sottacere le grandi motivazioni antifondamentaliste e di convivenza fra le più diverse culture che riempiono film come “L’emigrante”,’94, e i succitati “Il destino” e “L’altro”. In “Silenzio… si gira!”, Chahine riesce ad amalgamare i tanti motivi del suo cinema con una leggerezza che sembra trasformare gli ambienti ed i corpi dei protagonisti in ombre colorate e sospese, grazie anche all’uso prodigioso della splendida musica di sottofondo ed alla magica voce della pop star araba Latifa (nella foto). Ogni elemento narrativo, dal dramma alla commedia al musical, diventa così occasione per il grande cineasta egiziano di mostrare ancora una volta tutte le potenzialità del cinema inteso come linguaggio universale che riesce ad incantare comunque, solo che lo si concepisca come strumento pronto ad accogliere, da ogni angolo della realtà, verità da raccontare. La sua scomparsa, nel 2008, ci ha lasciati, dunque, sempre più soli nel provare a rinnovare l’unico miracolo di cui abbiamo certezze: il cinema.

La poesia civile e il fantasma curdo.

“Il tempo dei cavalli ubriachi”, di Bahman Ghobadi, prod. Iran, 2000.

La Storia e i suoi piccoli protagonisti. Tre fratellini orfani curdi cercano di sopravvivere, nel Kurdistan al confine fra Iran e Iraq, alla natura impervia e alla ferocia degli uomini(contrabbandieri o soldati a guardia di un confine mai tracciato e per questo tragicamente raddoppiato) nel tentativo di prolungare la vita al più giovane fra loro, afflitto da una malattia incurabile che ne impedisce tra l’altro anche la crescita(efficace metafora di un Kurdistan mai libero di svilupparsi come Stato indipendente) e per la quale necessita una operazione urgente da praticarsi in Irak. Il regista curdo-iraniano Bahman Ghobadi, già assistente di Abbas Kiarostami in “Il vento ci porterà via” e attore per Samira Makhmalbaf in “Lavagne”, si ispira ad un fatto di cronaca per immergerci, con la sua opera prima, nella drammatica realtà del suo popolo. Cinematograficamente vicino all’ humus poetico di De Sica (compresa la scelta di attori non professionisti) e alle montagne innevate e inaccessibili de “Il cammino della speranza” di Germi e dello splendido “Yol” di Guney, il film ha un finale aperto, che sembra, simbolicamente, demandare proprio alle giovani generazioni il compito di chiudere una tragedia che nel resto del mondo pare non interessare più nessuno. Vincitore della “Camera d’or” per il miglior esordio a Cannes 2000, il film di Ghobadi si spinge oltre la semplice illustrazione di una condizione umana invivibile, per inoltrarsi sul terreno della poesia così come spontanea viene fuori dai visi attoniti e sofferenti di questi piccoli eroi di una realtà più grande di loro. Omaggiando, significativamente, Truffaut e i suoi “I quattrocento colpi”, con la macchina da presa piazzata ad altezza di “bambino”, Ghobadi ci descrive un mondo fatto di soprusi e violenze, a cui gli innocenti protagonisti cercano di sfuggire nel solo modo a loro possibile: comportandosi da adulti. E così, per reperire i soldi destinati all’operazione necessaria al fratello, la sorella si dà controvoglia in sposa al maggiorente di uno sperduto villaggio, mentre il fratello maggiore si aggrega ad una banda di contrabbandieri adusi, tra l’altro, ad aggiungere alcol nel cibo dei cavalli per mezzo dei quali effettuano i loro spostamenti, per far sì che questi resistano alla fatica e al freddo, e quando talvolta eccedono nella dose le bestie si ubriacano(da cui il titolo della pellicola) compromettendo l’intera spedizione. Asciutto nella narrazione, il film sa regalare i momenti migliori nell’alternarsi dei campi lunghi della sofferenza collettiva di un popolo eternamente in fuga, ai primi piani degli sguardi di un’infanzia sopraffatta, il cui amore per la vita sorprende e commuove. Sospeso fra silenzi di fatica, immersi in un vento perenne, e spari nascosti che squarciano ogni solidarietà fra vinti, il film di Ghobadi è un raro esempio di cinema poetico civile, oggi tanto necessario e per questo ancora più prezioso.

Il cinema che non si arrende

“Sicilia!”, di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, prod.Ita,1999.

5 novembre 1999, prime proiezioni, a Roma, di “Sicilia!”, uno dei massimi capolavori della cinematografia contemporanea, che chiude simbolicamente il “nostro” Novecento. Diretto dal geniale duo Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, anche compagni di vita, il film si inoltra nei sentieri più dolorosi segnati dalla scrittura di Elio Vittorini nel suo “Conversazione in Sicilia”, da cui l’opera è tratta. Accusati da più parti di fare un cinema d’elite e sperimentale, i due cineasti francesi si sono da sempre mantenuti coerenti con il loro proposito di fare film intesi come strumento di crescita ed emancipazione sociale e culturale, oggetto di lavoro finalizzato a liberare l’uomo dai luoghi comuni dell’arte concepita come mero strumento di intrattenimento estetico. Il loro essere “non riconciliati”, parafrasando il titolo di uno dei primi lavori del solo Straub, li ha portati ad inventarsi nuovi linguaggi, non corrivi, capaci di manifestare ipotesi altre di messinscena di una realtà che ai loro occhi marxiani si è sempre presentata come ingiusta e prevaricante. La loro “indigeribilità” presso le masse popolari non è mai stato un atto di provocazione ma una necessaria scelta per porre le basi di una nuova percezione collettiva del binomio arte-politica. In questo, Straub e Huillet rappresentano, forse, l’ultima forma di avanguardia “storica” che non si è ancora arresa dinnanzi a un mondo che ha avuto gioco facile, loro cosi indifesi e solitari, nel tenerli fuori dai grandi circuiti di cui, purtroppo, la settima arte, visti i costi realizzativi, sembrerebbe dover far parte per sopravvivere.
In “Sicilia!”, la sofferenza legata alla sopravvivenza, il senso di abbandono, la necessità di rendere l’uomo libero da ciò che gli impedisce di essere tale, sono tutti temi vittoriniani che i due cineasti riescono a tramutare in splendide immagini, significativamente in bianco e nero, a non farle travolgere dal sole ingannatore, con lunghe inquadrature fisse dove i personaggi, interpretati non a caso da attori non professionisti, manifestano il loro disagio attraverso dialoghi scarni ma efficaci e semplici gesti. Il tutto ad evidenziare, metaforicamente, l’atavica impotenza cui è stata costretta una terra, la Sicilia, emblema di tutti i vinti. Ed è così che Straub e Huillet riescono a superare alla grande, per l’ennesima volta, la loro sfida comunicativa di raccontare certi temi ancora oggi fuori dalla percezione comune. Il cinema, dunque, come materiale resistente, sacrificio, scelta di vita, impossibilitato a non essere militante, pena il suo oscuramento. Troppo male, offendere il mondo…


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