Il caso di Julian Assange ci avverte che la libertà è in pericolo

0 0

Come era stato annunciato, gli Stati Uniti hanno deciso di ricorrere in appello contro la decisione della Corte suprema britannica di sospendere per gravi motivi di salute l’estradizione negli Stati Uniti di Julian Assange. Per un’intricata sequenza inerente alle testimonianze della compagna del giornalista australiano Stella Morris e dopo la revoca da parte dell’Ecuador della cittadinanza al co-fondatore di WikiLeaks, la scure americana è piombata sulla vicenda.

Si tratta di un passaggio drammatico, perché davvero Assange è in pericolo di vita. Si sospetta da varie parti che lo si voglia spingere al suicidio, data la grave condizione depressiva in cui versa un imputato così speciale. E speciale lo è proprio, vista la linea di confine che si vuole oltrepassare, creando un inaudito precedente. Neppure con le rivelazione dei Vietnam Papers, la documentazione riservata di quella guerra finita sui quotidiani, si era violato il principio fondamentale del rinomato primo emendamento in base al quale la libertà di espressione è tutelata dalla Costituzione. Infatti, i giornalisti che vi lavorarono non ebbero alcuna conseguenza coercitiva. Neppure la pubblicazione di testi scottanti fu bloccata. Se ne parla, al contrario, come di una eccezionale pagina di giornalismo.

Ecco, con Assange si vorrebbe ribaltare l’ordine degli addendi: non di informazione, bensì di spionaggio si tratterebbe. In base ad una legge del 1917. Sarebbe, come ha chiaramente sottolineato Furio Colombo, un evento gravissimo nella scrittura della giurisprudenza, con conseguenze di lungo periodo. Tra l’altro, ciò che sta accadendo in Afghanistan rende persino incredibile l’accusa a WikiLeaks, struttura di informazione che rivelò in tempo reale i misfatti avvenuti in quel paese occupato, come già era successo per l’Iraq. Si è trattato di racconti sui crimini perpetrati proprio dai paesi che volevano esportare la democrazia.

E ora ci si ravvede, dichiarando concluso e forse sbagliato il conflitto. Però, chi ne ha illuminato le trame rischia 175 anni di carcere.

La libertà di informazione, in questa stagione segnata da autoritarismi e chiusure di spazi professionali indipendenti, è considerata un lusso. Il giornalismo di inchiesta fa paura e crescono attacchi e minacce a chi cerca di fare con cura il mestiere sul campo. Il contesto, accuratamente descritto in tempo reale da Stefania Maurizi, è purtroppo evidente.

In ottobre, alla ripresa del processo si recherà a Londra una delegazione composta da un comitato articolato, comprensivo di diversi parlamentari. Meno male.

Ma tace il governo italiano. Tacciono tanto il presidente del consiglio Draghi, quanto il ministro degli esteri Di Maio. Vale la pena ricordare che il partito di appartenenza di Di Maio -5Stelle- aveva in altri tempi espresso un certo impegno sulla questione. E ora? Realismo politico, debolezza e subalternità di fronte all’amico americano? E’,invece, importante e dignitoso fare pressione oggi (o forse mai più) sul presidente Biden per una soluzione del caso. Dopo l’età di Trump, i democratici vogliosi di riscattare l’immagine nel mondo degli USA non pensano di accordare la grazia ad un giornalista reo di aver fatto trapelare la verità?

O si vuole un remake della vicenda di Sacco e Vanzetti, riabilitati dopo cinquant’anni dalla assurda condanna?

La federazione nazionale della stampa si è mossa e qualche coscienza si sta risvegliando. Ma è poco, troppo poco. Non c’è tempo. Sono in gioco valori decisivi, travolti i quali tutto può accadere. Poi, a un certo punto, ammoniva Brecht, arrivano anche a te. Disinteresse prima e disinteresse dopo. Quando meno te l’aspetti, il veleno della repressione ti tocca.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21